Un grande festival come la Mostra del Cinema di Venezia ci dice sempre non solo come va il mondo, percezioni, sentimenti ed idee che lo attraversano, ma anche in che forma si è reso raccontabile ed immaginabile. La questione non è da poco: possiamo per esempio immaginarci mondi distopici il cui racconto mantiene una sua logica, e dunque la domanda da porsi sarebbe che rapporto c’è tra quel contenuto e quella forma? Il carattere apocalittico del mondo è effetto di una eccessiva logica o quest’ultima individua un argine al caos delle cose?

Di certo, quello che emerge dai film visti al Lido è che il presente non sembra raccontabile in quanto tale. Il cinema non sembra oggi capace di adottare una forma che si modelli creativamente in analogia con la nostra esperienza ordinaria (come lo erano i generi). Le forme rappresentative quando riprendono modelli riconosciuti e stereotipati, anche nei casi più convincenti e perfino belli come in Adagio di Sollima o The Killer di Fincher, non sembrano riconsegnarci uno sguardo nuovo sul nostro presente.

Anzi, il carattere stereotipato di quelle forme determina in un certo senso una nicchia protettiva rispetto alla nostra esperienza, che si sente a casa di fronte a dispositivi rappresentativi riconosciuti e rassicuranti. È sempre possibile emendarsi di colpe passate (Adagio) o riscattare il proprio scetticismo radicale e omicida (The Killer).

Ciò che invece è emerso nei film migliori e più innovativi visti alla Mostra è che affrontare questioni urgenti, anche solo per il fatto che il dibattito pubblico le rende tali, è possibile realmente solo trasfigurando in termini mitico-favolistici o fantastico-grotteschi temi e storie, cioè andando oltre l’esperienza ordinaria.

Sia in Poor Things di Lanthimos, sull’emancipazione femminile, che in Io Capitano di Garrone, sull’emigrazione clandestina, che in Evil Does not Exist di Hamaguchi, sulla cura della natura, tre dei film più belli di quest’anno, meritatamente premiati, i grandi temi vengono restituiti attraverso una trasfigurazione (con livelli di radicalità diversi) mitico-fantastica e magico-onirica. Se in Lanthimos abbiamo in gioco il fantastico, tant’è che il personaggio di Bella è una sorta di Frankestein generato dal trapianto del cervello di una neonata nel corpo della madre suicida, in Garrone è la struttura mitica del viaggio dell’eroe a sorreggere la storia di emigrazione clandestina, in Hamaguchi è la natura ad accedere ad immagine attraverso micro-movimenti ipnotici di alberi, foglie, acqua, e ad assurgere, nel finale, ad un marcato stato onirico: il cervo ferito, la bambina, la neve, il padre e l’uomo che l’accompagna.

Ma anche in altri due film del concorso, meno felici ma comunque significativi, come Dogman di Besson e El Conde di Larrain, temi come l’emarginazione psico-sociale urbana nel primo, e l’esercizio dittatoriale del potere nel secondo, giungono a rappresentazione solo attraverso la trasfigurazione favolistica (Dogman) o grottesca (El Conde) del reale. Quando invece ci si immerge in forma piana nella rappresentazione di un’azione, con in aggiunta la ricostruzione ambientale di epoche precedenti, da Ferrari di Mann a Bastarden di Arcel a Comandante di De Angelis a Finalmente l’alba di Costanzo, con efficacia e qualità comunque diverse (maggiore in Ferrari), i film risultano stancamente prevedibili.

Ci sono invece almeno tre film in cui l’azione ci viene riconsegnata in forma obliqua ed originale: Hokage di Tsukamoto, sugli effetti della guerra e dell’atomica di Hiroshima, di cui vediamo tracce nei comportamenti delle persone, Priscilla della Coppola, nel quale dell’azione vediamo la parte passiva, l’assorbimento di ambienti, situazioni e comportamenti altrui da parte della giovane moglie di Presley, e The Caine Mutiny Court-Martial di Friedkin, il più grande film d’azione (senza azione) visto alla Mostra, tutto ambientato in un’aula di corte marziale.

Un precipitato comico e dinamico dell’azione, che anche riprendendo modelli (di genere e d’autore) consolidati è capace di riattuarli in forma vitale, lo ritroviamo in due commedie fuori concorso: Hit Man di Linklater e Coup de Change di Allen. Una screwball immorale dal carattere irriverente il primo, una divertente commedia che include tragico e detection il secondo, ci dicono forse che tra le forme generiche tradizionali una certa commedia può ancora dirci molto sul presente e le sue questioni centrali: l’identità e la maschera (Hit Man), o il caso e il controllo delle vite (Coup de Chance).

In sintesi, alcuni grandi temi (donna, natura, emigrazione, guerra, identità, amore) che segnano il nostro presente hanno trovato in molti dei film visti a Venezia un modo originale di elaborazione e di immaginazione. Un modo che ci permette di leggere quegli stessi temi in forma diversa ed alternativa rispetto a quella schematica ed ideologica con cui nella discussione pubblica vengono affrontati e trattati.

L’arte e il cinema hanno mostrato di essere capaci di arrivare a vedere in forma poetica, e con ciò stesso a farci comprendere meglio, ciò che affolla confusamente l’ordinarietà delle nostre vite, sature di cliché comunicativi e banalità ideologiche. Se c’era ancora bisogno il cinema e l’arte hanno mostrato di essere ancora una volta la pedagogia migliore.

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