Quella del 1957 è per Enzo Ferrari una primavera infernale. Nel marzo muore il suo pilota di punta, Eugenio Castellotti, pronto a trionfare alla successiva Mille Miglia. Meno di due mesi dopo, proprio verso la fine di quella gara, il suo sostituto Alfonso de Portago e il co-pilota Eddy Nelson escono di strada a bordo della loro Ferrari 335 all’altezza di Guidizzolo, in provincia di Mantova, e falciano alcuni spettatori sul lato della strada: muoiono nove persone, di cui cinque bambini. Da questo momento in poi non gareggeranno più vetture ad alte velocità su strade aperte al pubblico – e la Mille Miglia, dall’anno dopo, sarà cancellata. Sono queste due tragedie che incorniciano l’ultimo film di Michael Mann, l’attesissimo Ferrari, il primo dopo 8 anni da Blackhat.

Ferrari non è un vero biopic nel senso classico del termine. Mann decide di limitare a pochi mesi il racconto della vita di Enzo Ferrari, muovendosi costantemente sul crinale della dicotomia tra pubblico e privato. Un Ferrari privato, criptico, austero, contrapposto a un Ferrari che invade quasi divisticamente tutta la sua dimensione mediatica. A tale contrapposizione corrispondono stili e ricerche nella messa in scena completamente diversi, che finiscono per creare due film che si alternano in una continua tensione emotiva: un film familiare, girato per lo più in interni, con uno stile prevalentemente classico e controllato, accanto a un film d’azione, che dialoga apertamente con il genere sportivo, in cui la continua ricerca dell’effetto ottico e sonoro tende verso la sperimentazione delle forme filmiche.

Nel costruire il suo film familiare il regista americano pedina il corpo ingombrante e il volto imperturbabile di Adam Driver, che oscilla per le colline modenesi in equilibrio precario tra le sue due famiglie, quella ufficiale e quella informale, tra le naturali rivendicazioni del figlio illegittimo Piero e la memoria di Dino, morto l’anno precedente, la cui tomba Enzo visita tutte le mattine. È un film infestato di fantasmi, quello di Mann, in un continuo dialogo tra pubblico (le morti “sul campo) e il privato (l’impossibilità di elaborare il trauma).

Ventiquattro anni prima, gli amici piloti Giuseppe Campari e Mario Borzacchini muoiono tragicamente nello stesso incidente, a Monza, durante il Gran Premio d’Italia del 1933. Un anno prima, nel 1956, muore il figlio Dino a soli 24 anni a causa di una distrofia muscolare di cui era affetto dall’infanzia. La vita di Enzo Ferrari è una vita costellata di morti tragiche, pubbliche e private, così come la vita di Noodles (Robert De Niro avrebbe dovuto interpretare Enzo Ferrari nel primo progetto del film degli anni novanta) o Michael Corleone. Per questo, Mann tenta di dialogare costantemente con l’immaginario dell’Italia costruito dal cinema americano: dal telefono che squilla a vuoto all’inizio del film, come nell’incipit di C’era una volta in America, al montaggio alternato tra la corsa in pista della Maserati e la “messa degli operai”, che rimanda in tutta evidenza al Padrino, fino ad arrivare alla scena della Traviata, con l’aria Parigi, o cara alternata ai ricordi del figlio Dino, che ricorda la morte di Mary, la figlia di Michael Corleone sulle scale del Teatro Massimo di Palermo dopo la rappresentazione della Cavalleria rusticana nel terzo capitolo della saga.

La morte, così, invade anche la scena pubblica, ovvero quella del secondo film, quello sportivo. Perché se è vero che si rischia di morire correndo, è anche vero che Ferrari corre per non morire, come il titolo dell’incredibile docu-serie Netflix sulla Formula 1: Drive to Survive, che ha mutato profondamente l’immaginario globale di uno degli sport più spettacolari di sempre. D’altronde, e lo dice Enzo Ferrari stesso nel pieno di una gravissima crisi industriale della sua azienda, se la Jaguar partecipa alle corse per vendere macchine, lui vuole vendere macchine soltanto per partecipare alle corse. E se la vittoria dell’ultima Mille Miglia della storia porterà, di lì a qualche anno, alla costruzione e alla diffusione internazionale del brand Ferrari come simbolo del made in Italy, Enzo non potrà mai festeggiare realmente quella storica vittoria, tanto agognata, proprio a causa della sequela di morti che lo perseguita.

Con Ferrari Mann decostruisce l’immaginario del film automobilistico, dove i piloti funzionano solitamente da agenti della costruzione narrativa ed emozionale. Il punto di vista dell’autore si distanzia solo raramente da quello di Enzo Ferrari, che è sì un ex-pilota, ma che nel 1957 è ormai un costruttore, imprenditore di successo da almeno dieci anni. Per questo, il film può essere considerato il controcampo ideale, seppur in flashback, del bellissimo Le Mans ’66 – La grande sfida di James Mangold, racconto della storica sfida tra Ford e Ferrari dal punto di vista di un costruttore della prima scuderia. Se, tuttavia, nel 1966 la Ferrari è la scuderia da battere, e dunque Enzo è indirettamente il vero antagonista del film, nel 1957 la casa di Maranello è in grosse difficoltà economiche, alla ricerca di vittorie sportive che possano rilanciarla. Questa difficoltà permette un maggiore allineamento spettatoriale col punto di vista di Ferrari, che la maggioranza degli spettatori riconosce come un personaggio dall’indiscusso successo. Non sembra un caso, così, che dalla macchina distrutta di De Portago e Nelson l’unica cosa che rimane intatta sia il cavallino rampante al centro del volante.

Le Ferrari e le Maserati che sfrecciano nella Mille Miglia del ’57 sembrano i MiG di Top Gun, e i milleseicento chilometri del percorso Brescia-Roma, andata e ritorno, sono un campo di battaglia. È qui che Mann abbandona l’austerità con cui ha raccontato il Ferrari privato, il film familiare dunque, per lasciarsi andare a una messa in scena moderna, sperimentale, realista. Nel film sportivo, sequenze brevissime si alternano in un montaggio forsennato, scandito dai rombi dei motori delle automobili in corsa. Soggettive, semi-soggettive, droni ed effetti vertigo conducono lo spettatore in un’esperienza immersiva e catartica, dove il paesaggio italiano diventa una cornice, mai semantizzata fino in fondo, scenario per lo più indirizzato agli spettatori internazionali. Certo è che in questo lavoro di destrutturazione del paesaggio italiano, le tre sovrimpressioni iniziali sulle colline emiliane, e il lento movimento a seguire sulle lenzuola che avvolgono il corpo di Enzo, ci conducono per mano dentro una casa. Nella villa in collina dove Enzo nasconde l’amante con il figlio illegittimo, c’è subito una strana aria di casa: quell’aria di un cinema che abbiamo aspettato quasi dieci anni.

Ferrari. Regia: Michael Mann; sceneggiatura: Troy Kennedy-Martin; fotografia: Erik Messerschmidt; montaggio: Pietro Scalia; interpreti: Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley, Gabriel Leone, Sarah Gadon, Jack O’Connell, Patrick Dempsey; produzione: Forward Pass, Storyteller Productions, Moto Productions, Rocket Science, Iervolino & Lady Bacardi Entertainment; distribuzione: Leone Film Group; origine: Stati Uniti d’America; durata: 130′; anno: 2023.

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