È la nostra ossessione: costruire mondi che non siano quelli in cui ci troviamo a vivere, anche solo per un attimo, anche solo per il tempo di accedere a un pensiero capace di dare voce a un altrove in cui la realtà perde di intensità. Le motivazioni sono diverse, a volte si agisce per noia o per disattenzione, altre per evitare di essere travolti e sopraffatti da quanto accade. Questi mondi si costruiscono, soprattutto, per dare concretezza alla propria immaginazione seguendo così un’attitudine che siamo sollecitati ad assumere ed esercitare sin dai primi anni di vita, quando il gioco a fare finta (Walton 2015) è la modalità che più facilmente si impara per ottenere la comprensione di tutti coloro che impariamo a osservare, prima di copiarne gesti e movimenti, senza per questo sostituirci a essi.
Tale dispositivo è cruciale per il funzionamento e la creazione di tutto ciò che appartiene al campo dell’arte e alle sue forme, e lo è in particolar modo per il cinema, la cui macchina finzionale è in grado di mettere in chiaro un universo di immagini che occupano lo spazio visivo con una gravità tale da riordinare, attorno a loro, il tempo e lo spazio, ampliandone altresì la possibilità di esperienza. Imprimendosi negli occhi degli spettatori, le immagini cinematografiche creano una dimensione che è frutto di una sovrapposizione che, tuttavia, non è una sostituzione. Lo ha mostrato chiaramente Spielberg nella prima parte di The Fabelmans (2022), ad esempio attraverso la ricostruzione casalinga del deragliamento del treno, mostrando così quanto le immagini riescano a influire sulla possibilità di guardare il mondo. E anche sulla capacità di costruirne altri, nel tentativo di prendere il controllo creativo di quanto si è visto. Di questa possibilità e di questa capacità parla il film di Saverio Costanzo, Finalmente l’alba (2023).
Anni cinquanta, pieno Secondo dopoguerra, lo schermo in bianco e nero si apre sugli interni poco rassicuranti di un edificio abbandonato in cui due militari tedeschi stanno cercando una donna e una bambina; quando entrambe sono trovate, la donna muore mentre la bambina viene salvata da un soldato americano che la porta al sicuro passando per la scalinata di Trinità dei Monti. Fine. Stacco. Titoli di coda. Si entra nella sala cinematografica in cui il film è appena terminato: una madre e le sue due figlie iniziano a commentare il film, e mentre chiacchierano e la madre commenta quanto siano belle anche nella parte posteriore le sedie in legno (costruite dal marito insieme ad altri falegnami), un uomo interviene per proporre a una delle due ragazze di andare a fare un provino per un ruolo di comparsa a Cinecittà il giorno dopo. Dopo una discussione familiare, arriva l’approvazione unanime: le tre donne, dalla sala cinematografica, entrano negli spazi del cinema, il luogo in cui immaginario e realtà collidono in senso quasi drammatico per chi non ha ancora la forza di distinguere l’uno dall’altra, proprio come accade a Mimosa (Rebecca Antonaci) che, entrando a contatto con la confusione di un mondo immaginario diventato reale, continua a guardare ciò che ha intorno dimenticando il gioco di far finta.
Riprendendo una tradizione piuttosto radicata che riguarda sia la permeabilità di Roma a essere osservata e percepita come il centro dell’immaginario cinematografico (per generalizzazione estrema, dal cinema di Fellini a quello di Sorrentino), sia il tema di una giovane donna che viene travolta dalle situazioni senza mai riuscire a prenderne il controllo, Finalmente l’alba non aggiunge molto altro nel campo di quella che si potrebbe definire una narrativa del flâneur. Piuttosto, Costanzo ricorda quanto sia importante recuperare il senso dello scarto tra realtà e cinema, costringendoci a tornare indietro al tempo in cui giocare a far finta era una questione che si rifletteva nel modo in cui gli occhi si accendevano di meraviglia e stupore, o si spegnevano di delusione, quando si ascoltavano storie che erano in grado, o meno, di suscitare l’immaginazione. Mimosa si mette in posa per il provino sorridendo con le labbra separate e i denti in vista, la bocca aperta più che socchiusa; quando le chiedono di aprire la camicetta perché nell’Antico Egitto le donne erano a seno nudo, la gioia si trasforma in imbarazzo e viene scartata.
Nel tentativo di recuperare la sorella (c’è sempre qualcuno da recuperare o da salvare in ogni storia), si perde e la sua sagoma per qualche istante si sovrappone – ancora una volta sullo schermo – a quella di un corpo morto, coperto da un lenzuolo, e ritrovato sulla spiaggia di Torvaianica: è il 1953, è Wilma Montesi, era una comparsa a Cinecittà, era una ragazza come sua sorella. Mimosa continua a sbagliare, viene cacciata dalla sala, si perde di nuovo, e incontra Josephine Esperanto (Lily James) e Sean Lockwood (Joe Keery), i due divi americani pronti a entrare sul set del film per il quale lei e la sorella si erano proposte. Gli occhi si gonfiano, diventano più grandi e si riempiono di emozione: li ha visti, e con lei li abbiamo visti anche noi. Proprio nel momento in cui sta per uscire dal labirinto per ricongiungersi alla madre, qualcuno la richiama indietro: non è ancora il momento, ci sono dei passaggi da fare prima di risolvere gli enigmi. L’attrice americana ha visto il suo sguardo, e la vuole accanto a sé sul set. Dallo schermo si passa direttamente all’azione, secondo una dinamica incontrollabile che viene riprodotta con la medesima forza anche nella vita di Mimosa che, cambia abito, e diventa Sandy, una poetessa svedese frutto dell’immaginazione di una nuova giocatrice, Josephine. Mimosa che, oltre lo schermo, può diventare Wilma Montesi.
C’è un passaggio del film che allude, molto rapidamente, a un possibile finale tragico per la donna, nel momento in cui, appena salita in macchina per partecipare a una festa nella villa di Capocotta (la stessa villa in cui Wilma è stata la notte della sua morte), vengono inquadrati per terra i suoi vecchi vestiti e le sue scarpe. Anzi, è come se Mimosa – che conosce la storia di Wilma a causa della centralità che essa ha progressivamente assunto a seguito della sua eccezionale copertura mediatica per l’epoca – ripercorre i suoi passi, fino ad arrivare alla spiaggia in cui campeggia la croce di legno installata a suo ricordo. Nello spazio di un giorno, tutto si dilata fino ad assumere una conformazione straniante e avvolgente in cui l’alba è qualcosa da allontanare, perché quando si fa giorno tutto diventa più chiaro e i corpi sono scoperti nudi. O morti. Anzi, l’alba è un momento da ritardare almeno per il tempo in cui finalmente Mimosa smette di guardare il cinema (e al cinema) per prendere possesso della sua vita.
Finalmente l’alba non è il racconto di un rivolgimento radicale ai fini di una crescita personale, oppure un monito banale rispetto alla necessità di non concedersi la libertà di immaginare per vivere il presente in senso concreto: la storia presentata da Costanzo è un invito a far finta per gioco. Soltanto in quella dimensione si diventa capaci di entrare e uscire dallo schermo, di diventare altro senza mai prenderne le sembianze, di rivolgere lo sguardo altrove restando saldi nel proprio corpo. Attraversando gli ambienti che Wilma Montesi, secondo le indagini, ha visitato nelle ultime ore della sua vita, e compiendo il gesto mancato di Alida Valli (interpretata qui in un duplice ruolo finzione da Alba Rohrwacher), Mimosa, alla fine del suo film, abita nella soglia tra realtà e finzione. Scende dalla scalinata della Trinità, e senza nessuna bambina da salvare, passeggia con una leonessa al suo fianco, la stessa leonessa che aveva osservato, prima con curiosità e poi con timore, a Cinecittà. Forse non è sempre importante capire quando il gioco è finito, piuttosto accettare quanto sia essenziale non allontanarsi mai dalla soglia.
Riferimenti bibliografici
K. L. Walton, Mimesi come far finta. Sui fondamenti delle arti rappresentazionali, Mimesis, Milano-Udine 2015.
Finalmente l’alba. Regia: Saverio Costanzo; sceneggiatura: Saverio Costanzo; fotografia: Sayombhu Mukdeeprom; montaggio: Giuseppe Trepiccione; interpreti: Rebecca Antonaci, Lily James, Joe Keery, Rachel Sennott, Alba Rohrwacher, Willem Dafoe; produzione: Wildside, Fremantle, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 140′; anno: 2023.