Un lunghissimo, lentissimo travelling scorre ad inquadrare, inclinato dal basso verso l’alto, l’intrico arboreo di un bosco che si staglia contro il cielo terso. L’impressione è che uno sguardo impersonale, un punto di visione estatica e incommensurabile, scenda con un movimento di volo soave e imperturbabile a posarsi verso lo spettatore, mentre una musica limpida, come composta di luce diafana, fluisce accordandosi al movimento che sembra protrarsi e avanzare all’infinito. Si apre così, dischiudendo l’immagine ipnotica di un bosco incantato il nuovo film di Ryusuke Hamaguchi Aku wa sonzai shinai (Il male non esiste).

Del resto il film nasce da un cortometraggio muto (che si intitola significativamente Gift, Il dono)  previsto come una sorta di riflesso visivo per un concerto dal vivo della musicista Eiko Ishibashi (che ha composto la colonna sonora del suo Drive my car, 2021). Poi si è trasformato in un lungometraggio, dipanandosi in una sorta di apologo sulla condizione dell’uomo contemporaneo, abitante dell’antropocene, in una riflessione su come l’ecosistema, l’ambiente terrestre si stia progressivamente trasformando ad opera dell’intervento umano che ne altera sempre più l’equilibrio. Si tratta dell’inquietante interrogativo dei nostri tempi: cosa accade alla natura minacciata dall’uomo il quale non si accorda più al respiro del pianeta?

Il villaggio di Mizubiki, dove Hamaguchi ambienta questa sua “parabola” lirica, è a poca distanza da Tokio eppure qui  il dialogo tra l’uomo e la natura, l’armonizzarsi con i suoi cicli perdura da generazioni, in una semplice e assorta ritualità fatta di gesti semplici: tagliare i tronchi degli alberi e ricavarne i ceppi di legname, raccogliere l’acqua sorgiva che scorre dal monte che cinge il villaggio a valle verso il fiume e si riversa nel bacino lacustre, raccogliere la pianta selvatica del wasabi, ormai rara in città, osservare i cervi che spuntano occhieggiando nel bosco. Il film ci mostra tutto ciò conferendo il valore e la sacralità di “simbolo” alle situazioni e al dischiudersi delle visioni, e lo emblematizza nei nomi dei personaggi del luogo: Takumi, che in giapponese significa “abile artigiano”, il “tuttofare” del luogo, e la figlia piccola che lo accompagna, Hana, che si traduce in “fiore”.

In una sequenza iniziale pervasa da una tonalità onirica li vediamo inoltrarsi nella foresta e, come in un “eden” ritrovato, nominare le piante, i fiori, le specie arboree, le piume di fagiano cadute nel sottobosco, salvo a imbattersi sull’erba nella carcassa di un cerbiatto abbattuto, quasi segno premonitore di una ferita inferta all’ordine naturale, che incombe, come si vedrà, sugli abitanti del villaggio. Nel placido e terso andamento di questa ouverture del film Hamaguchi, fedele alla intrinseca natura musicale delle sue immagini, è come se accordasse gli strumenti della compagine orchestrale del film e procedesse a un “preludio”. L’abilità straordinaria nel lavorare il suono naturale, nell’interporre improvvisi silenzi perturbanti (entro i quali riecheggiano minacciosi colpi di fucile) permettono ad Hamaguchi di stemperare l’atmosfera di una enclave idilliaca nel timbro del mistero, ma anche della minaccia.

Ciò che avviene nel procedere del film traspone il lirismo “trasparente” in un racconto morale entro cui si configura il suo carattere di apologo e il cineasta giapponese conferma in tal modo anche una sua cifra ispirativa alla Rohmer (cui si riferiva il suo precedente Il gioco del destino e della fantasia, 2021) riecheggiando del cineasta francese L’albero, il sindaco e la mediateca (L’Arbre, le Maire et la Médiathèque, 1993), altro apologo rurale ed ecologista, dove la comunità di un paesino di campagna francese si ribellava al progetto del sindaco di costruire un centro culturale e sportivo che richiedeva l’abbattimento di un salice secolare.

Il villaggio di Mizubiki viene appunto qui preso di mira per una operazione di marketing da una “società di spettacolo” che non a caso produce serie televisive, la Tokyo Playmode intenzionata ad impiantare nel luogo un sito glamping, cioè un campeggio di lusso per turisti facoltosi alla ricerca di luoghi incontaminati. Il progetto impatterebbe con l’equilibrio naturale del luogo dal momento che la fossa settica del sito avvelenerà la fornitura idrica. Due funzionari della società, un uomo e una donna, vengono inviati al villaggio per presentare il progetto e convincere la comunità locale a dare l’assenso. L’incontro con la comunità da parte del dirigente della società avviene con un collegamento a distanza: il mondo asettico della icona schermica del computer si oppone alle presenze fisiche, alle reazioni emotive della comunità, l’immagine globalizzante alle singolarità irriducibili.

Comincia così un percorso che Hamaguchi focalizza su un sistema di relazioni biunivoche che si diramano come dei vettori scanditi da traiettorie filmiche e punti di vista spiazzanti, concretate in piani sequenza che esplorano gli spazi naturali, in camera-car ribaltati da riprese dal retro del cruscotto, con la strada che scivola via e risucchia il nostro sguardo, mentre fuori campo lo scorrere dialogico tra Takumi e i funzionari dell’agenzia intesse una relazione che prende la forma di un apprendistato progressivo dell’uomo proveniente dalla società tecnologica, dalla globalizzazione dello spettacolo, in una sorta di addestramento enigmatico al mistero naturale del luogo. Mistero che rivela via via il Genius Loci che si nasconde e trapela nel paesaggio e negli spazi.

Lo stesso Takumi appare come il depositario, quasi sciamanico, dell’enigma e dell’anima del luogo, e sottopone il funzionario alla “prova” del saper tagliare la legna, impartisce una specie di “lezione” sui cervi selvatici che non assalgono l’uomo a meno che non siano feriti, racchiude in una serie di frasi che risuonano quasi come dei koan zen o degli haiku il sapere stesso che emana dal rapporto della comunità con la natura: “il problema è l’equilibrio, se si va oltre si perde l’equilibrio”, “quello che accade a monte prima o poi arriva su quello che c’è a valle”. In modo tale che la stessa coppia di funzionari sembrano catturati, attratti magneticamente dal muto mistero del luogo.

Il film fluttua allora come una sorta di ruscello da cui scaturiscono le immagini (l’acqua si fa metafora dello scorrere fluttuante delle situazioni visive e dei contrappunti dialogici), che si compongono come una partitura, con motivi che mentre svaniscono, ritornano. La carrellata in contreplongée sulle chiome degli alberi contrappunta musicalmente il procedere delle situazioni e torna in una variazione notturna alla luce della luna. I gesti di Hana (bambina-folletto con il suo berrettino) ritornano come a disegnare delle immagini-ideogrammi (il passare di mano della piuma di fagiano, il dar da mangiare con cura e dedizione alle mucche). Hamaguchi imprime un ritmo ipnotico, affida al film uno sguardo proprio che è quello dell’epifania e dell’immanenza, dell’accadere segreto delle cose, spinge le immagini fino a farle orbitare e sconfinare come in un’altra dimensione dello sguardo che si fa sempre più impersonale, evanescente.

Hana, la bambina-fiore, si destina alla scomparsa, come chiamata dall’anima ancestrale del villaggio. Alla natura sono state inferte delle ferite che sanguinano e quel sangue cola sul collo del cervo e sulle labbra della bambina, stilla dai rami degli alberi. La ricerca finale della piccola Hana suggella una possibile perdita dell’ordine naturale. Hana è perduta e si perde nella natura. Si ferma sul prato innevato che si confonde con la distesa di ghiaccio del lago. Quella perdita diventa un riconoscimento e si racchiude nei suoi occhi spalancati verso i due maestosi cervi feriti che le restituiscono lo sguardo. La bambina va loro incontro. Con un campo lunghissimo Hamaguchi distende la scena, la protrae in una visione che si fa indecifrabile. Il funzionario fa uno scatto in direzione di Hana come per sottrarla al cervo ferito che potrebbe attaccarla, il padre Takumi lo serra con un braccio per trattenerlo. Tutto avviene come sotto uno sguardo limpido e imperturbabile, tutto si sospende, immoto come osservato dal cuore della terra, in basso, e dal bianco diafano del cielo, in alto. La sinfonia delle immagini si dissolve.

La natura non è fissa ma fluida. Lo spirito la altera, la modella, la fa. L’immobilità o la brutalità della natura è assenza di spirito; per il puro spirito essa è fluida, instabile, obbediente. Ogni spirito costruisce per se stesso una casa e oltre alla sua casa un mondo, e oltre al suo mondo un cielo. Costruisci perciò il tuo proprio mondo

scriveva il filosofo trascendentalista americano Ralph Waldo Emerson nel saggio Natura (2017). Eppure mentre costruiamo il nostro mondo e il nostro cielo, la natura continua a guardarci

Riferimenti bibliografici
R. W. Emerson, Natura, Donzelli, Roma 2017.

Aku wa sonzai shinai (Il male non esiste). Regia: Ryûsuke Hamaguchi; sceneggiatura: Ryûsuke Hamaguchi, Eiko Ishibashi; fotografia: Yoshio Kitagawa; montaggio: Ryûsuke Hamaguchi, Azusa Yamazaki; interpreti: Hitoshi Omika, Ayaka Shibutani, Ryô Nishikawa, Ryûji Kosaka, Hazuki Kikuchi, Yoshinori Miyata, Hiroyuki Miura, Taijirô Tamura, Yûto Torii; produzione: NEOPA Inc.; distribuzione: Tucker Film; origine: Giappone; durata: 106′; anno: 2023.

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