Il più grande film d’azione visto fino ad oggi alla Mostra del Cinema è senza dubbio The Caine Mutiny Court-Martial. Ed è un film tutto girato in un’aula di un tribunale militare, quella della Marina Militare di San Francisco, che affida esclusivamente alla parola dei personaggi, alla forza della messa in scena e di una regia rigorosa, il peso di una capacità espressiva notevole nel raccontare e portare ad immagine che cosa sia un’azione e il potere che si ha di compierla o di sovvertirla. Ma ancor di più, e la questione è il vero cuore del film, di interpretarla.

L’ammutinamento compiuto dall’ufficiale Maryk, insieme agli altri ufficiali e alla ciurma, nei confronti del comandante Queeg nel corso di una violenta tempesta, è stato un atto di sabotaggio per ribaltare ruoli e gerarchie o un atto salvifico per mettere in sicurezza una nave guidata da un comandante inaffidabile?

Il punto non è ciò che è accaduto, perché entrambi, comandante ed ufficiale, riconoscono come sono andate le cose. Il punto è se come sono andate le cose era giustificato. Perché il potere su una nave è segnato, più che nella vita ordinaria, dalla necessaria e rigida distribuzione di compiti, di ruoli, perfino di spazi (come ci ha raccontato un grande romanzo di uno dei padri fondatori della letteratura americana, Giacchetta bianca di Melville). Sovvertire quest’ordine è mettere a rischio la tenuta del mondo stesso che quella nave contiene.

L’opzione se condurre a nord o a sud una nave durante una tempesta fa parte delle scelte possibili. La divergenza di valutazioni in merito può essere risolta solo gerarchicamente. Sarà il comandante a decidere. A meno che la sua autorità non venga minata, e quella scelta non venga più rispettata perché il comandante in sé ha dei problemi. Lo slittamento di prospettiva nello sviluppo del dibattimento, in cui diventano protagonisti, oltre a comandante e ufficiali, anche l’accusa e la difesa dell’imputato Maryk, è chiaro: bisognerà passare da ciò che Maryk ha fatto a ciò che Queeg è.

Questo passaggio dall’azione all’essere è uno dei nodi più inquietanti dello scarto da un livello pragmatico-giuridico ad uno ontologico, segnando lo slittamento dall’azione colpevole al soggetto colpevole. Di cosa sarebbe stato colpevole il comandante Queeg tanto da giustificare un ammutinamento? Di essere un “paranoico” ed un “ossessivo”? E dove è individuabile il confine tra una tendenza ossessiva che può segnare la normalità delle vite di molti e una paranoia pericolosa per chi esercita il comando? E un tribunale si può occupare di ciò che qualcuno è senza che questo abbia fatto veramente nulla?

Dove possono essere trovati i segni che definiscono lo slittamento dal normale al patologico? Il dibattimento, tra domande e risposte, azioni e reazioni, indaga questo impossibile compito. Neanche le improbabili perizie mediche potrebbero sbrogliare questo nodo del colpevole per ciò che è e non per ciò che ha fatto. Neanche il riconoscimento di una paura comprensibile, per quanto non opportuna, davanti ad un’operazione di sminamento delle acque (compito a cui era assegnata la nave), può legittimare un ammutinamento. Se non fosse che, andando avanti con il processo, ad un certo punto il comandante, precipitando in se stesso, manifesta attraverso un monologo quell’insieme di passioni, paure, che ne hanno caratterizzato il comportamento comunque autoritario, segnato da divieti e da ordini impartiti con troppa forza impositiva nei confronti dei suoi subordinati. Ma questo non lo rende ipso facto colpevole, né legittima l’ammutinamento. Ne spiega solo alcune ragioni. Scagiona Maryk.

La possibilità di discernere nella vita l’innocente dal colpevole, chi ha peccato di autoritarismo e chi di hybris non è facile. E tutto ciò il film lo mostra con forza, nell’alternanza dei piani, dei volti e dei gesti di tutti i protagonisti di quella recita per la verità che è un processo. Ma una verità processuale è un modo per sciogliere un nodo e riattribuire posizioni e ruoli a tutti. Non definisce mai veramente il senso di ciò che è accaduto.

Greenwald, l’avvocato di Maryk, a fine processo, durante un party, non sembra contento anche se ha vinto. L’ammutinamento non è stato un atto del tutto innocente perché il comandante non era del tutto colpevole. La nostra vita pratica ci porta sempre dentro a situazioni di questo genere, dove non è possibile sciogliere l’intreccio delle responsabilità in ciò che accade. La vita si vive dall’interno, nel caos di sentimenti, pulsioni, prassi consolidate, che difficilmente un’aula di tribunale può giudicare in via definitiva.

Ciò che è accaduto poteva anche non accadere pensa Greenwald, se uno degli ufficiali, compiaciuto dal suo narcisismo di vanesio neo scrittore, non avesse soffiato sul fuoco, istigando Maryk. È lui il colpevole, pur non potendo mai apparire tale in un processo. È lui che facendo leva sulle debolezze degli uomini (che si traducono spesso in atti inopportuni ed arbitrari) e sulla pressione dei contesti ha spinto per disarticolarli. E questo ha portato all’umiliazione di un comandante con ventun anni di carriera, capace di difendere – e qui c’è un momento di retorica nazionalistica – il Paese, quando quei giovani facevano ben altro.

Tratto dall’omonimo e fortunato romanzo di Herman Wouk, da cui è stato tratto nel 1954 L’ammutinamento del Caine di Dmytryk, con Bogart che interpretava il comandante (troviamo una citazione esplicita nel film di Friedkin con Queeg che fa scorrere nell’interno della mano le biglie di acciaio per allentare la tensione), The Caine Mutiny Court-Martial non solo aggiorna gli eventi, spostandoli dalla Seconda guerra mondiale all’oggi, ma compie una scelta di maggiore radicalità, elidendo ogni scena sulla nave e in mare e circoscrivendo il campo d’azione all’aula di corte marziale: è lì che l’azione viene discussa, interpretata, fino a minarne il cuore dell’imputazione. Fino a minarne cioè l’inarrestabile violenza che da questa si genera e che molto cinema americano continua a restituirci.

Per questo l’ultimo film di Friedkin è un film magnifico: perché ci racconta nell’azione e attraverso l’azione (ma senza mai farcela vedere), come è tipico del grande cinema americano, come sia possibile, e perfino necessario, non percorrere fino in fondo la strada dell’imputazione, e della violenza che ne scaturirebbe, e riconoscere che l’assegnazione di colpevolezza si trova spesso lì dove nessun tribunale potrebbe mai intervenire, cioè nelle pieghe che prende la vita stessa quando ad agirla sono sempre quegli attori maldestri che sono gli uomini.

The Caine Mutiny Court-Martial. Regia: William Friedkin; sceneggiatura: Herman Wouk, William Friedkin; fotografia: Michael Grady; montaggio: Darrin Navarro; interpreti: Kiefer Sutherland, Jason Clarke, Jake Lacy, Monica Raymund, Lance Reddick; produzione: Showtime, Paramount Global; distribuzione: Paramount+; origine: Stati Uniti d’America; durata: 109′; anno: 2023.

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