di PIETRO MASCIULLO
The Killer di David Fincher.
“È impossibile essere invisibili nel XXI secolo, al massimo si può tentare di essere non memorabili”. Sin dalla prima inquadratura The Killer aspira consapevolmente a diventare l’ideale controcampo di ogni serial killer film diretto da David Fincher. Come se la densa metafisica del male che agita il fuori campo di Seven (1995), Fight Club (1999), Zodiac (2007) o delle due stagioni di Mindhunter (2017-2019) – rendendo le inquadrature molto più ambigue e perturbanti dei rispettivi plot narrativi –, trovasse nel flusso di coscienza di questo strano killer in perenne meditazione una nuova frontiera di riflessione sull’umano. E non è certo un caso che l’adattamento della graphic novel di Alexis Nolent venga affidato proprio allo sceneggiatore di Seven Andrew Kevin Walker: un’evidente referenza immaginaria che presuppone con lucida consapevolezza la ricerca di un nuovo approccio formale.
Ecco, Fincher rallenta i suoi soliti ritmi di montaggio cercando di configurare la coalescenza tra una soggettività in crisi e l’articolazione hitchcockiana delle inquadrature. Da questo punto di vista sono magnifici i primi 15 minuti parigini con la descrizione di una prassi resa teoria in medias res: la preparazione fisica e psicologica dell’omicidio passa da una dilatazione dei tempi di lettura delle inquadrature e dall’esplicitazione in voice over di un ostinato orizzonte filosofico nichilista. Ma, nuovamente, sono le immagini che ridiscutono le parole configurando piccole crepe nella forma classica e prefigurando la messa in abisso identitaria: Michael Fassbender passa in rassegna le finestre sul cortile che immaginano vari generi possibili (dal thriller al dramma sociale), orientando le sue attenzioni (e il suo fucile) su una finestra in particolare.
Il killer-regista demiurgo sceglie persino la colonna sonora: la voce di Morrisey e le note pop rock degli Smiths diventano auricolarizzazioni interne (le cuffie) nei primi piani oggettivi ed erompono invece come colonna sonora del film (over) nei raccordi di sguardo con le soggettive. Una sutura audio-visiva che mette subito le carte in tavola: il killer del titolo è il dispositivo cinematografico. Quindi, ogni riflessione etica ed estetica va cercata nelle immagini e non nel fluviale flusso di coscienza dell’uomo. Noi spettatori siamo quindi invitati a cercare scarti, raccordi impossibili e dilatazioni temporali che sfideranno l’imperturbabile trasparenza/invisibilità dello stile classico.
Qualcosa va subito storto, appunto. Il bersaglio parigino è mancato, una donna innocente viene uccisa, il killer fugge e diventa a sua volta bersaglio dei suoi committenti. Il protagonista diventa così una sorta di automa spirituale bressoniano che esegue azioni ossessive e rituali per ripulire a ritroso la catena di informatori (quindi eliminando ogni persona coinvolta nel tragico errore) sino ad arrivare all’originario committente. E in queste azioni reiterate – tra echi di Pickpocket (1959) e Taxi Driver (1976) rimediati nel barocchismo strategicamente sedato di Fincher – si dispiega il The Game (1997) del XXI secolo. Sin dagli anni novanta, del resto, i film di Fincher hanno sempre ipotizzato una sorta di teoria dei “giochi vuoti” seminando referenze sulla superfice delle immagini (da Seven a The Social Network) e rintracciando le pulsioni umane nel paradossale girare a vuoto del dispositivo (i magnifici Zodiac e Mindhunter).
Insomma, da Parigi al Sud America, da New Orleans a New York, il killer ci comunica in voce over le sue assertive regole del gioco puntualmente inceppate nella progressiva messa in dubbio della propria identità: “Tu sei qui perché hai bisogno che io ti guardi, non ti fidi più di te”, gli dice Tilda Swinton scoprendo un umano bisogno di prossimità posto oltre la sbandierata regola della distanza. Fincher coglie una riflessione centrale per il XXI secolo: le certezze acritiche di una soggettività algoritmica – e qui il discorso potrebbe allargarsi all’orizzonte del nuovo capitalismo della sorveglianza citando in maniera letterale Fight Club – che aspira all’atarassia dei sensi ma rischia di cadere nell’oscena anestesia del sensibile (sotterranei link con il bellissimo La bête di Bertrand Bonello).
Insomma, The Killer pedina i glitch emotivi di una redenzione schraderiana che solo il cinema può ancora raggiungere in quanto medium autoriflessivo per antonomasia. Un film teorico che ragiona dall’interno (produzione e distribuzione Netflix) sulla platform society? Di sicuro un film che ha il coraggio di configurare la decisiva messa in discussione di un metodo (e del tendenziale rapporto algoritmico con le immagini) nell’improvvisa consapevolezza del protagonista di essere “uno dei tanti” che ha bisogno di “fidarsi delle persone”. Un grande film (sul) contemporaneo.
The Killer. Regia: David Fincher; sceneggiatura: Andrew Kevin Walker; fotografia: Erik Messerschmidt; montaggio: Kirk Baxter; interpreti: Michael Fassbender, Tilda Swinton, Charles Parnell, Arliss Howard, Lacey Dover, Monique Ganderton, Suzette Lange, Kellan Rhude, Monika Gossmann, Brandon Morales, Kerry O’Malley, Sala Baker; produzione: Archaia Entertainment, Boom! Studios, Panic Pictures, Paramount Pictures, Plan B Entertainment; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 113; anno: 2023.