Immaginate Margaret Thatcher in persona che, dal primo all’ultimo minuto, vi racconta una storia, una storia di vampiri. Non siamo in Transilvania e non ci sono castelli dai tetti appuntiti. Non c’è spazio per Dracula né per Nosferatu… Tutto si svolge tra la vecchia Europa e il Sudamerica (“Ah, il Sudamerica”), in un vai e vieni nello spazio e nel tempo, nel tentativo di concepire qualcosa come una genealogia della violenza politica e dell’oppressione totalitaria. Si tratta di oscure faccende che vanno avanti quantomeno dalla Francia di Luigi XVI, si accendono nel bagno di sangue della Rivoluzione francese, trovano rilancio nel Terrore rivoluzionario e dal terrore non si distaccano più, per secoli, in una meccanica di contagio. Immaginate ora che il protagonista di questa storia – il vampiro che attraversa secoli e continenti – sia il generale e dittatore cileno Augusto Pinochet, anagraficamente nato nel 1915 e morto nel 2006. Di fatto, un redivivo, capace come è stato di garantirsi – dopo il referendum democratico del 1988 – il comando delle forze armate del Paese fino al 1998 e l’assenza di condanne fino alla fine. L’impunità come forma di vita eterna.

Ecco qua, El Conde, il nuovo film di Pablo Larraín presentato in concorso all’ottantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Si tratta di un ritorno ai temi e luoghi della “trilogia della dittatura”: da Tony Manero (2008) a NO. I giorni dell’arcobaleno (2012), passando per Post mortem (2010), Larraín ha infatti raccontato, con una forza visionaria capace di imporlo come uno dei più interessanti registi contemporanei, il trauma storico e politico vissuto dal popolo cileno tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso; la condizione di trovarsi in una delle più feroci dittature della storia e, al contempo, nel laboratorio sperimentale delle teorie neoliberiste dei “Chicago Boys”, basate sulla privatizzazione del patrimonio pubblico e l’indebolimento del tessuto sociale (uno dei link con Thatcher). Ma, a ben vedere, in nessuno di questi film – che pure si caratterizzano per una tessitura intermediale, fatta di finzione come di archivi storici – emerge o compare il personaggio di Pinochet.

Come rappresentare un dittatore? Come mettere in immagine un tiranno? E come evitare che questa nuova serie di immagini riaccenda la sua luce infame, magari nelle forme di condivisione e interazione mediale di nuova generazione? El Conde risponde – o prova a rispondere – a queste domande. Lo fa attraverso tre strumenti narrativi e compositivi ben precisi. Il film trova infatti, prima di tutto, ancoraggio in un genere, si sostanzia in una visione del mondo e contribuisce alla ridefinizione di un campo.

Il genere è la cosiddetta horror comedy, caratterizzata dall’intreccio di situazioni macabre e comiche, violente e scanzonate. Tale componente è strettamente connessa al soggetto del film e coincide con la meccanica della sceneggiatura, con i dialoghi serrati, i continui cambi di registro e i toni sarcastici (molti dei quali ricordano, quantomeno dal punto di vista ritmico, il dialogo a distanza del cortometraggio realizzato da Larraín per il film collettivo Homemade, anch’esso prodotto da Netflix e interpretato da Jaime Vadell). È precisamente in nome di tale codice che diventa possibile passare repentinamente dall’immagine di Pinochet immerso in un bagno di sangue altrui al confronto tra il dittatore e la moglie – di fronte ai figli – su ciò che resta della loro passione amorosa nella stagione della senilità vampiresca. Con il pretesto dell’horror comedy, con l’alibi offerto dal genere di riferimento, El Conde immagina e mette in scena continue ammissioni di colpevolezza da parte di Pinochet, confermate dalla moglie e dai figli. Se la struttura della confessione caratterizza il cinema di Larraín (pensiamo a Il club, 2015), una figura come quella della giovane suora esorcista che raggiunge la dimora di Pinochet sintetizza ed esprime in questo caso l’esigenza di verità storica, i metodi dell’inchiesta giudiziaria e l’incombenza della sfera religiosa e morale, provocando continue oscillazioni.

Se la meccanica di genere è la condizione di funzionamento di El Conde, essa è anche il suo limite interno, ciò che tende a impedire al film di rispondere alle domande di partenza, quelle da cui scaturisce (ovvero il rapporto tra violenza, potere e rappresentazione). Nell’equilibrato dosaggio di humor nero e orrore storico, si può infatti avvertire il rischio della deriva ludica e, per dirla così, di un “addomesticamento” del vampiro a nostro uso e consumo (o viceversa). È dunque il filtro del grottesco – laddove ammanta l’immagine – a porsi come garante del fatto che nessuna risata di, con e su Pinochet (o chi per lui) potrà mai essere rassicurante, pacificante, riconciliante. Soprattutto nelle sequenze che maggiormente mettono alla prova la nostra resistenza di spettatori e spettatrici (il vampirismo come cannibalismo tecnicizzato), ma anche di fronte al continuo accostamento tra l’ordinario e l’aberrante (il frullatore), la visione grottesca interrompe l’equilibrio tra i vari registri del racconto per far apparire la strutturale ambiguità del potere. Come tutti i vampiri, Pinochet è umano e non-umano, è vivo e non-morto. È espressione massima del corpo istituzionale – i feticci politici che compaiono dall’inizio alla fine del film – e, al contempo, corpo bestiale o, meglio, pura materia ematica.

El Conde è senz’altro un film singolare all’interno del percorso di Larraín che, nel corso degli ultimi anni, ci ha abituato a racconti vividi, aderenti ad eventi storici documentati, oppure intensi ritratti di grandi figure storiche: da Neruda (2016) a Jackie (2017), fino Spencer (2021), aspettando Maria (Callas). Eppure, ripensandoci bene o, magari, tornando a vederlo ancora una volta, El Conde sembra spingere avanti la riflessione condotta dal regista sulle forme del cinema biografico politico. Con questo nuovo film, Larraín sembra provare a fare i conti con il paradosso insito nel raccontare una vita illustre il cui potere si è fondato sull’esercizio continuativo della violenza e sulla messa a morte di migliaia di persone. Senza scomodare citazioni di filosofia politica, come ritrarre il potere se il potere è capace di tutto?

E così che la storia di Pinochet (e di “sua madre” Margaret Thatcher) raccontata da Pablo Larraín sembra espandere ulteriormente il campo del cinema biografico contemporaneo, immaginando un cinema “tanatopolitico”. Un cinema sotto il segno del vampiro.

Riferimenti bibliografici
M. Coviello, F. Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini Cosenza 2018.
R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel «biopic» italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.

El Conde. Regia: Pablo Larraín; sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín; fotografia: Edward Lachman; interpreti: Jaime Vadell, Gloria Münchmeyer, Alfredo Castro; produzione: Fábula; distribuzione: Netflix; origine: Cile; durata: 110′; anno: 2023.

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