Se vale l’assunto che a volte essere autore significa fare sempre lo stesso film, è altrettanto vero che altri registi sembrano aver basato la loro autorialità proprio su un senso di versatilità che li rende, di film in film, alquanto imprevedibili. Il caso di Richard Linklater si colloca in una linea di demarcazione tra le due posizioni. Pur rimanendo spesso all’interno dei confini della commedia, la sua filmografia presenta un’eterogeneità tale da mostrare una costante voglia di rinnovamento. Basti pensare a film come Tutti vogliono qualcosa (2016) e A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (2006), che mettono in luce un aggiornamento rispettivamente sulla rielaborazione della commedia adolescenziale e sulle tecniche linguistiche.

Hit Man (ri)conferma la capacità di Linklater di sorprendere pur continuando sulla scia di una rielaborazione del genere comedy. Neanche questa volta realizza una semplice commedia tradizionale, quanto piuttosto un film che possiede il respiro delle grandi commedie classiche degli anni trenta. Linklater guarda con fascino ad Howard Hawks per imbastire una vera e propria screwball comedy contemporanea che vive di quella dinamicità, velocità, sregolatezza di film come Susanna! (1938) e La signora del venerdì (1940). Il rapporto tra Gary/Ron e Madison – con tanto di continui ribaltamenti dei ruoli – e il loro modo di interagire e dialogare incarna appieno il senso della screwball comedy hawksiana. Nel confronto decisivo – in cui l’uomo cerca di orchestrare una conversazione che permetta di scagionare l’amata ai microfoni della polizia – i due personaggi si scambiano rapide battute botta-risposta, recuperando quella che Michel Chion chiama overlapping dialogue e che caratterizza i dialoghi delle commedie hollywoodiane degli anni trenta. I personaggi si parlano uno su l’altro, con scambi verbali che non lasciano tempo a respiri, a momenti di pausa, dando forma ad una commedia che vive proprio della brillantezza delle battute.

La sintonia attoriale nel confronto menzionato è messa in risalto anche attraverso lo scollamento tra visibile-udibile, tra ciò che è possibile vedere e ciò che è possibile sentire, che permette di proseguire su due direzioni: da una parte c’è la conversazione ascoltata dalla polizia, dall’altra quella vista dai protagonisti. Alle parole recitate seguono in contrappunto le loro espressioni che danno forma ad un dialogo alternativo che fa emergere una dimensione performativa molto marcata. Gary e Madison si interrogano, si provocano, si stupiscono con sguardi ed espressioni, mentre tramite le loro parole espongono un’interpretazione nell’interpretazione. La dimensione performativa non si limita però a semplice accompagnamento, ma viene narrativizzata nel corso del film dall’aspetto ludico legato al tema del travestitismo.

Nonostante Hawks faccia da ponte tra la screwball comedy e il travestitismo – basti pensare a Un dollaro d’onore (1959) o al già citato Susanna! – Linklater sembra recuperare il senso di giocosità e spettacolarità del vaudeville e dei serial movie degli anni dieci: da Zigomar, roi des voleurs (1911) di Victorin-Hippolyte Jasset a Judex (1916) di Louis Feuillade. Come il Mabuse di Fritz Lang, Gary sfrutta il travestitismo identitario in modo spettacolare-performativo per ottenere una moltitudine di identità che vengono rivolte ad uno spettatore, ora diegetico ora extradiegetico. Si instaura così un rapporto riflessivo tra individuo-identità e tra attore-personaggio, in cui l’azione performativa diventa al tempo stesso il territorio di uno scontro personale e di una ricerca della propria identità.

L’approccio ludico-giocoso alla narrazione è riconfermato dal modo in cui Linklater affronta la realtà storica. Dopo aver comunicato all’inizio che quanto segue è tratto dalle vicende di una persona realmente esistita, il film si conclude con un’ammissione di colpa: è sì la storia di Gary Johnson, ma ciò che viene dopo è frutto di fantasia, quello “se lo sono inventato”. Il fatto di cronaca diventa allora materia malleabile con cui giocare a proprio piacimento. È possibile trasformare (travestire) la realtà storica secondo le esigenze del cinema e del racconto, confondendo, così come si confondono Gary e Ron, verità e menzogna. Nulla ha più una sola identità e tutto sembra mascherarsi.

Partendo dalle tre istanze intrapsichiche Super-Io, Es, Io – che il protagonista spiega durante una lezione ai suoi allievi e a noi con loro – i confini tra reale e finzione vengono progressivamente meno in una (con)fusione tra Gary persona e Ron personaggio. La stessa love story attorno a cui gira il film nasce da un’azione perfomativa, o meglio, da un’azione menzognera data da un interpretazione attoriale: è di Ron che Madison si innamora e della capacità di Gary di interpretare un alter ego ideale che rappresenta tutto ciò che il protagonista vorrebbe ma non riesce ad essere per costrizione sociale. Tramite il pretesto della performatività, Gary (il Super-Io) ha la l’occasione di svincolarsi della propria personalità costruita nel tempo in relazione alle convenzioni sociali, lasciando il passo ad una nuova individualità che permetta di far emergere la vera natura primordiale della propria persona, rappresentata dalla figura di Ron (l’Es). La finale personalità che ne risulta – dopo lo mascheramento dell’inganno nei confronti di Madison – dà vita ad una terza persona, somma dell’Es e del Super-Io, sintetizzata dal nuovo Gary. L’interpretazione attoriale diventa così il mezzo per la formazione definitiva dell’Io: l’hypokrités non è più colui che assumere le sembianze di un altro per mentire, ma colui che attraverso l’ipocrisia ha la capacità di scoprire se stesso.

Hit Man. Regia: Richard Linklater; sceneggiatura: Richard Linklater, Glen Powell; fotografia: Shane F. Kelly; montaggio: Sandra Adair; interpreti: Adria Arjona, Glen Powell, Retta, Austin Amelio, Molly Bernard; produzione: BarnStorm Productions Aggregate Films Detour Filmproduction; distribuzione: Bim distribuzione; origine: USA; durata: 113; anno: 2023.

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