Abbiamo visto molti film lunghi all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Alberto Barbera lo aveva anticipato. E addirittura il breve (poco più di 60 minuti) e divertente film di Takeshi Kitano, Broken Rage, lo rende esplicito, quando dice che sta usando dei riempitivi (scambio di messaggi su smartphone) per giungere ad una lunghezza commercialmente accettabile “ora che si fanno tutti film lunghissimi”.
Tale lunghezza è un sintomo di come funziona il cinema oggi. E forse il sintomo di un problema. Perché questa lunghezza non serve quasi mai a narrare una storia complessa, che necessiterebbe di tempo per la crescita di personaggi e lo sviluppo di situazioni. Per questo ci sono le serie, anche belle come quelle viste al Festival. Con momenti memorabili anche perché lunghi, come il dialogo in piano sequenza in una stanza d’albergo della coppia di Los años nuevos.
Non si ha dunque mai la sensazione che la lunghezza dei film visti risponda ad una esigenza interna allo sviluppo della storia. Esattamente l’opposto. Quando la storia sembra in qualche modo chiudersi, penso al pur interessante Stranger Eyes di Siew Hua Yeo, alla fine si riapre senza aggiungere molto altro a ciò che il film aveva detto molto chiaramente fino a quel momento, sul controllo che nelle nostre vite esercitano i dispositivi ottici, siano essi smartphone o videocamere disseminate nelle città.
Anche quando un film nasce da romanzi sostanzialmente brevi, incentrati su pochi personaggi e situazioni, piuttosto che su vere storie da raccontare, come Queer di Guadagnino, tratto da Burroughs, non solo l’adattamento non abbrevia, ma anzi sembra espandere: la prima versione del film di Guadagnino era di 185 minuti, poi ridotta ad una lunghezza intermedia di 152 minuti, fino a giungere a quella mostrata al Festival di 135 minuti.
E anche The Brutalist di Brian Corbet, 215 minuti, in cui è stato perfino previsto dall’autore un intervallo di quindici minuti, si espone ad una lunghezza eccessiva. Anche se l’arco temporale narrato qui è più ampio, si va dal 1947, quando l’architetto Tóth arriva in America, al 1980, anno della prima Biennale di Architettura che gli dedicherà un omaggio, in gioco c’è comunque un personaggio con le sue fragilità, rigidezze e chiusure, più che una vera e propria storia con ambienti da descrivere, molti personaggi da rappresentare, e relazioni complesse da restituire, che mutano nel tempo ecc. Non c’è nulla della storia raccontata che non si potesse restituire con durata più contenuta.
Dunque, in gioco c’è altro. C’è un problema che è esattamente l’opposto di quello che si può immaginare. Non tanto, “mi serve tempo per raccontare una storia”, ma all’opposto, “mi serve tempo affinché una storia non possa essere raccontata”.
Se il tempo di un film è tanto, talvolta troppo, questo serve a rendere impossibile il racconto di una storia definita. Differendo la fine, o moltiplicandola, la storia fa difficoltà a compiersi, ad avere un senso definito.
Una storia con la sua logica è comunque un “momento sintetico” dell’eterogeneità del materiale narrativo, e questo momento necessita di una fine determinata, verso cui si orienti tale materiale, sia essa una fine negativa (tragedia) o positiva (commedia), o anche sospesa (romanzo). Ma se tale momento si rende indeterminato, differito o moltiplicato, è proprio la “sintesi” che viene a mancare, rimossa ed esorcizzata, a favore di una infinitezza che fa problema.
È dunque la forma stessa e il suo carattere selettivo (se non radicalmente sottrattivo, come pensava Robert Bresson) ad entrare in crisi. Non si riesce a dare forma, dunque senso, al mondo. E questo si traduce nella resa illimitata, quando non caotica, della forma stessa. Il mondo e la società non sembrano essere più raccontabili in forma interessante attraverso narrazioni compiute e segnate dal senso del limite.
Ci sono stati altri momenti nella storia del cinema in cui la logica narrativa è entrata in crisi, sostituita dalla struttura episodica, per bozzetti, per numeri o per scene, come è avvenuto nel grande cinema italiano di inizio anni sessanta, con Fellini ed Antonioni. Ci ricordiamo tutti della lunga festa finale de La dolce vita o della scena alla Borsa di L’eclisse.
Niente di tutto questo nel cinema di oggi, visto alla Mostra. Con l’eccezione di due tra i film migliori visti, Finalement di Claude Lelouch e Joker: folie à deux di Todd Philips, che sono strutturati per numeri, soprattutto musicali, senza alcuna necessità di lunghezze particolari, il resto dei film (quelli con maggiori riscontri) non ha nessuna forma episodica né una elaborazione per scene.
La lunghezza sembra nascere invece da una sorta di superfetazione di elementi narrativi, per cui la forma non prende mai programmaticamente forma, ma gemmando e moltiplicandosi si auto dissolve (esemplare da questo punto di vista The Brutalist).
Questo accade dunque non solo perché il mondo non sembra più raccontabile, né riportabile ad un punto di sintesi, che è un modo per provare a comprenderlo. Ma perché questa condizione di indeterminatezza, di incapacità di scelta e di selezione, di apertura di piste molteplici, di indefinito differimento della fine, è la condizione di una comune aspirazione, di autore e spettatori, di permanere in uno stato emotivo, cognitivo, estetico, del reale senza deciderlo. Si direbbe nei termini della psicologia corrente, che si tratta di permanenza in una condizione di compiaciuto narcisismo, molto spesso megalomane (come da Cannes il Megalopolis di Coppola), incapace di scegliere e di limitare.
Senza limite non c’è composizione. E in conseguenza di ciò, la forza estetica dell’opera si complica. Oggi, la forma non deve comporre, scegliere, dare senso, portare ad immagine un non detto; la forma sembra dover tradurre una certa condizione confusa ed illimitata del sentire e della conoscenza, del loro farsi-flusso. Meglio durare e durare, rinunciando a decidere. E ciò che è composto sembra essere vecchio.
Ci sono eccezioni a questo, di cui la giuria sembra aver tenuto conto. Il film di Almodovar, The Room Next Door, non è solo un film sulla fine della vita (e dunque sulla percezione radicale del limite), ma sulla scelta di farla finita, di anticipare la morte quando non c’è più speranza se non di un dolore sempre più forte. Con l’eutanasia, il senso della vita resta un affare di scelta, di composizione, di interruzione volontaria, tant’è che tale scelta sarà accompagnata da un segno, la porta della camera da letto chiusa con cui Martha (Tilda Swinton), che sta morendo, annuncerà all’amica Ingrid (Julianne Moore) il gesto compiuto.
Insomma, la lunga durata dei film è il sintomo di un modo oggi di pensare e usare le forme. L’opera non decide più di portare ad immagine (e dunque ad una qualche possibile chiarezza) ciò che di implicito e non detto c’è nello spettatore, ma in quell’implicito sembra soggiornarci, spesso compiaciuta, talvolta in un tempo indefinito. Il composto, che non significa il chiuso ma il limitato (e verso questo lo sguardo femminile sembra avere una più naturale disponibilità, come testimoniato da Vermiglio della Delpero) non è emersione di una forma invecchiata, ma è l’unica vera condizione per cui l’opera possa contare nelle nostre vite, con effetti catartici, emendativi, curativi e anche di conoscenza.