Una donna in dolce attesa in piedi dentro una tinozza d’acqua. Il suo corpo nudo scintilla illuminato da un fascio di luce, facendo risaltare la rotondità del ventre sulle superfici scure delle mura di casa: una curva perfetta che ricorda la sagoma curvilinea di una vallata. Ecco uno dei frame più affascinanti di Vermiglio, presentato in Concorso all’ 81° Festival di Venezia.

Il film prende forma a partire da un luogo, un comune della provincia di Trento, situato nell’estremità settentrionale della Val di Sole. La scelta di questo luogo è determinata sia dall’importanza strategica che ebbe durante i due conflitti mondiali (si tratta dell’ultimo paese di Trento prima del Passo del Tonale, che fu confine di stato tra l’Impero austro-ungarico e il Regno d’Italia), sia, soprattutto, per il suo valore biografico: Vermiglio è il luogo dell’infanzia della regista Maura Delpero, un luogo di radici e di memoria.  

È in questo luogo materno, sul finire della Seconda guerra mondiale, che è ambientata la storia delle tre sorelle Graziadei (Lucia, Ada e Flavia): le ragazze, non più bambine, si apprestano a divenire donne, a scontrarsi con i dettami della tradizione, i ruoli di genere e con le aspettative della propria famiglia e del contesto sociale che le circonda. Si seguono maggiormente le vicende di Lucia che, innamorandosi del siciliano Pietro, convola velocemente a nozze dopo essere rimasta incinta.  

Come nelle ultime opere di Delpero, anche in Vermiglio, si rintracciano due costanti, una contenutistica e l’altra stilistico-formale. In primo luogo, la maternità è eletta a nucleo trainante degli avvenimenti raccontati (Nadea e Sveta, 2012, Maternal, 2019). In secondo luogo, la regista accoglie alcune istanze del cinema documentario legate ai suoi esordi (Moglie e Buoi dei Paesi Tuoi, 2006), mescolandole al desiderio affabulativo.  Un esempio della presenza di queste due costanti è Maternal, il suo penultimo lungometraggio, in cui la regista filma un hogar, un centro religioso italo-argentino per ragazze madri. Fin dalla scelta e dal minuzioso sopralluogo che Delpero fa dell’istituto prima delle riprese, lo stile di regia è contaminato da elementi documentari, generati dal previo incontro che la regista ebbe con le abitanti del centro, conoscendole, confrontandosi con loro e prendendo appunti sul suo taccuino. 

Vermiglio è scritto e messo in scena mediante un lento processo di documentazione, fatto di interviste agli abitanti del luogo e di paziente osservazione dell’ambiente: la conoscenza del luogo filmato è infatti fondamentale affinché si formi nei personaggi, nella regista e nello spettatore un regime di credenza che sostenga la struttura finzionale del racconto. L’aspetto biografico del film, connesso primariamente alle radici geografico-affettive di Delpero, si estende alla memoria collettiva della Seconda guerra mondiale solo attraverso l’artificio narrativo, la costruzione di una storia, quella della famiglia Graziadei. La trama è arricchita da un accurato lavoro sui dettagli caratteristici del luogo di montagna – dallo scricchiolio del fuoco nelle fredde giornate, alla coroncina con le bacche di sambuco, fino al latte caldo distribuito per colazione – che trasudano la verità del luogo filmato, dando vita a delle immagini sensoriali.

È dunque il luogo di Vermiglio e il rapporto che i protagonisti inconsapevolmente instaurano col paesaggio, a definire lo spirito del lungometraggio. Emblematiche a questo proposito sono le sequenze contemplative della valle innevata, quelle in cui il vestiario scuro dell’inverno e la brace delle sigarette spiccano sul bianco della neve, oppure quelle in cui i colori chiari dei vestiti estivi si fondono col vivido verde della valle. I momenti decisivi per lo sviluppo dei fatti sono le riprese in esterni, alternate a quelle in interni, come i festeggiamenti del matrimonio di Pietro e Lucia, dove la tavolata degli invitati è posizionata ai bordi della vallata, esposta all’apertura delle pendici montuose che le sono di fronte.

Esplicitando l’importanza della natura e dei suoi ambienti, il film segue l’andamento ciclico delle stagioni, messo in evidenza dal discorso in cui il maestro Graziadei celebra l’armonia de Le Quattro Stagioni di Vivaldi: “Ogni violino è un sentimento, un vento, un animale”. Il ciclo delle stagioni è il ciclo della vita, quella che, a guerra finita, sembra sbocciare prepotentemente nella famiglia Graziadei: Lucia partorisce la piccola Antonia e, nonostante la brutale perdita del marito Pietro, alla fine si riconosce nelle vesti di madre.

In Vermiglio, lo sguardo rigoroso di Delpero, con movimenti di macchina sobri e sintetici, rivela il valore sacro della maternità e dell’appartenenza: un cinema della sottrazione e delle azioni minime che ricorda quello di Ermanno Olmi. Viene in mente L’albero degli zoccoli (1978), dove è la campagna bergamasca ad essere un luogo materno, percorso da un potente senso religioso, in cui racconti e ricordi infantili vengono ricostruiti e narrati in immagini, conservando sempre un’anima documentaria.

Vermiglio. Regia: Maura Delpero; sceneggiatura: Maura Delpero; fotografia: Mikhail Krichman; montaggio: Luca Mattei; musiche: Matteo Franceschini; interpreti: Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi, Orietta Notari, Carlotta Gamba, Santiago Fondevila Sancet, Rachele Potrich, Anna Thaler, Patrick Gardner, Enrico Panizza, Luis Thaler, Simone Bendetti, Sara Serraiocco; produzione: Cinedora, Charades Productions, Versus Production; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia, Belgio; durata: 119’; anno: 2024.

Tags     Delpero, luogo, maternità
Share