Ci sono film che ti sovrastano, nei confronti dei quali le ipotesi interpretative trovano sempre una eccedenza di senso nell’opera (è il caso dei film di Welles e di Kubrick, per esempio), per cui si sente che il punto di attacco di una riflessione critica deciderà anche di tutto ciò che di quel film resterà fuori dal discorso. E ci sono altri film che ti sconcertano, nel senso che da qualsiasi punto si voglia partire, ci si trova sempre nell’ordine di una mancanza radicale rispetto all’opera che si ha di fronte.  Ma non per una carenza di sguardo del critico, ma per il modo in cui il film è costruito, operando continue e spiazzanti svolte strutturali spesso per autolegittimarsi senza sapere bene dove approdare.

È il caso di The Brutalist di Brady Corbet, la cui frase finale può icasticamente sintetizzare ciò che abbiamo visto fino a quel punto, ma ribaltandone il senso: “Non è il percorso del viaggio che conta ma la destinazione” dice la nipote (di fatto una figlia adottiva) all’inaugurazione della mostra dell’architetto, László Tóth (Adrien Brody), alla prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980, dopo che abbiamo visto Tóth fuggire in America nel 1947, lui ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento. Se è la destinazione che conta, allora tutto sembra confuso nel film, se invece è il percorso qualcosa da dire sul film c’è.

Tutte le fonti di ispirazione citate, da Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War di Jean Louis Cohen a La fonte meravigliosa di Howard Roak, non fanno che gettare sulla “destinazione” del film ipoteche pesanti. In gioco sembra più propriamente esserci un ribaltamento del mito americano. László Tóth approda a Philadelphia, in Pennsylvania, dove ha avuto origine la Rivoluzione americana e dove il 4 luglio del 1776 viene promulgata la Dichiarazione d’Indipendenza dalla madre patria britannica. Nell’America civilizzata, Tóth porta la sua storia di affermato architetto europeo e trova nel magnate Harrison Lee Van Buren la fonte principale per poter avere fortuna anche negli Stati Uniti, imponendo il suo talento e alimentando la sua passione. La moglie lo potrà raggiungere solo qualche anno dopo. Van Buren darà a László un incarico importante, costruire un centro culturale polifunzionale in onore della madre defunta.

Fino a questo punto il film sembra raccontare una storia di emigrazione negli Stati Uniti di artisti ed intellettuali alla ricerca di salvezza e futuro, con tutto ciò che ne consegue. A partire dallo scontro tra la libertà creativa dell’artista e gli obblighi e i vincoli del contesto sociale americano, con le richieste, i limiti e il potere che Harrison esercita su László. Ma qui, l’incapacità di Tóth di giungere a patti, di accettare compromessi, trasforma l’individualità e il talento dell’artista in un limite strutturale che l’America ti fa sentire più di altri contesti.

Ed allora Tóth immagina di affermare se stesso contro il potere dei suoi mecenati (che impongono una modifica al suo progetto), resistendo e pagando un prezzo alto al raggiungimento della sua meta ideale, alla realizzazione del suo sogno di architetto, rinunciando a parte del suo stipendio e perfino al suo stesso lavoro.  E l’arrivo della moglie in sedia a rotelle per una malattia, senza che avesse detto nulla al marito, peggiora la situazione. Ora la chiusura di László riguarda anche il suo privato, i suoi scontri sul lavoro e in famiglia sono costanti. L’individualismo che dovrebbe segnare la differenziazione del talento e il successo dell’impresa americana, ponendosi come il cuore stesso dello spirito democratico che senza competizione diventerebbe grigio anonimato degli uguali, in Tóth diventa una voragine in cui l’architetto precipita. E questo non tanto perché l’America è una terra segnata da ostilità, violenza e abusi (culminati nello stupro che László subisce da Harrison), quanto perché Tóth non è sufficientemente americano, la sua voglia di successo e di denaro è troppo debole, il suo narcisismo inquieto è troppo ingombrante, tanto da portarlo fino ad un inizio di autodistruzione con l’uso di droghe. La precipitazione in sé stessi, in una soggettività passionalmente chiusa, spinge László e il film verso il melodrammatico.

Non resta dunque a Tóth che operare un movimento di ritorno verso l’Europa: sia per trovare i materiali per ciò che sta costruendo in America, il marmo di Carrara ecc. (uno dei momenti più felici del film), sia, anni dopo, per la grande mostra alla Biennale. Ma oramai Tóth è invecchiato e sarà lui ad essere portato in sedia a rotelle.

Tutte le meraviglie tecniche con cui il film è costruito (VistaVision 70 mm), la scelta di prevedere, con tanto di immagine con countdown, un intervallo di quindici minuti, e via dicendo, cercano di compensare con il succedersi di sorprese la destinazione incerta del lungo viaggio. E l’attrazione più che sposarsi con la meraviglia sembra essere il dispositivo di avanzamento di un film infinito in cui si accumulano svolte imprevedibili.

La critica dura all’America che esce dal film è una critica in fondo all’Europa. Perché se è vero che l’arroganza del potere del denaro sembra sovrastante, è anche vero che László fallisce perché resta europeo, perché si cura di se stesso non come motore di una “nuova nascita” per sé e la sua famiglia (accettando eventualmente piccoli compromessi), ma come un “io” smarrito e fragile che si pensa però nobile, e che continua di fatto a vivere come un bambino abbandonato che non si sente sufficientemente amato.

The Brutalist. Regia: Brady Corbet; sceneggiatura: Brady Corbet, Mona Fastvold; fotografia: Lol Crawley; montaggio: Dávid Jancsó; musiche: Daniel Blumberg; interpreti: Adrien Brody, Guy Pearce, Felicity Jones, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Isaach De Bankolé, Alessandro Nivola; produzione: Andrew Lauren Productions, Yellow Bear Films, Brookstreet Pictures, Intake Films, Killer Films, Protagonist Pictures, Three Six Zero Group, Proton Cinema; origine: Regno Unito; durata: 215’; anno: 2024.

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