In un parco due giovani genitori, Junyang e Peiying, giocano con la loro bambina. La nonna paterna della piccola, nel fuoricampo, sta riprendendo la scena con una videocamera. Mentre le immagini scorrono, degli effetti di freeze e reverse ne alterano il flusso. Si rivela, così, il primo dei numerosi rispecchiamenti tematizzati da Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, in concorso a Venezia 81: come lo spettatore, anche Peiying, madre della bambina, sta osservando dal suo pc il filmato, alla ricerca di “indizi” utili per l’indagine che sta conducendo. Sua figlia, infatti, è scomparsa.

Il film di famiglia d’apertura condensa perfettamente i motivi (piuttosto espliciti) di un film sul vedere e l’essere visti – “I’m watching you” si legge sulla maglia di Peiying –  e prelude al dischiudersi del dispositivo melodrammatico che informa la narrazione, in cui l’indagine sulla scomparsa della bambina si rivela solo un pretesto. Se è vero, infatti, che l’home movie «esiste per affermare la famiglia come luogo di felicità e in questo modo la mette al riparo dalle contingenze temporali e dalle vicissitudini del mondo» (Odin 1998, p. 8), allo stesso tempo può risultare una violazione dell’intimità dei soggetti agita da chi riprende. Una forma di controllo, quindi. La madre di Junyang vorrebbe condividere online il filmato; Peiying vuole che sia la sua bambina, quando sarà grande, a decidere cosa fare della propria immagine. Ma quanto potere abbiamo sulla nostra immagine? 

Da Singapore, il Paese che detiene il record del maggior numero di videocamere di sorveglianza per numero di abitanti (costantemente inquadrate durante tutto il film), Stranger Eyes guarda ad Hitchcock – come i suoi personaggi si guardano dalle finestre dei loro appartamenti – e, ragionando sul voyeurismo, constata come «il gioco dinamico della sorveglianza ha portato questa a diventare sempre più determinante nella cultura contemporanea» (Zimmer 2015, p.74). Non è però il controllo agito da un apparato statale ad interessare Yeo Siew Hua, quanto piuttosto una “perversione del guardare” – come la definisce il film – tutta umana. Di un’umanità tecnologizzata, il cui sguardo non può che essere mediato da un dispositivo.

Così mentre i due protagonisti cercano la loro bambina – rapita mentre Junyang avrebbe dovuto “sorvegliarla”, distratto, guarda caso, da una telefonata della sua “sorvegliante”, la madre, che vive con la coppia – dei filmati vengono loro recapitati attraverso dei dvd. L’autore, Lao Wu, è uno dei fan di Peiying (la donna si esibisce in diretta streaming come dj e tenta di costruire attraverso queste immagini una propria identità pubblica), abita nell’appartamento di fronte a quello della coppia ed è diventato loro stalker. Laddove l’home movie si fa garante dell’istituzione familiare e, quindi, di un certo ordine sociale (Odin 1998), questi video, rivelando alla protagonista i tradimenti del marito, sgretolano la coesione della famiglia. 

Ancor prima, però, a minare la tenuta del matrimonio è una forma di elusione, tipicamente melodrammatica, interna alla coppia: i soggetti non si vedono. Peiying si percepisce come invisibile agli occhi del marito e trova nello sguardo dello stalker – che la osserva attraverso le finestre del suo appartamento e le telecamere del centro commerciale in cui lui lavora – una forma di riconoscimento. La loro relazione scopica è sbilanciata nella misura in cui la donna non vede mai il suo stalker (pur entrando in intimità con lui attraverso un fitto scambio di messaggi), fino a quando, credendolo il rapitore di sua figlia, non decide di incontrarlo e lo pugnala. Il simbolismo penetrativo è chiaro: la lama penetra il corpo di Lao Wu come lo sguardo dell’uomo si era introdotto nella privacy della donna. Il dispositivo tecnico (la videocamera) torna dispositivo meccanico (la lama), ma la violenza del gesto resta invariata.

Ancora un’altra intrusione e un altro rispecchiamento segnano lo sciogliersi – o il poco funzionale complicarsi, in base al punto da cui si vuole guardare – della trama. Junyang si introduce nell’appartamento di Lao Wu, scopre che anche questo vive con l’anziana madre (cieca, a rendere ancora più esplicito il tema del film) e ha “perso” sua figlia. Nell’archivio di dvd dello stalker trova dei filmati con protagonista una ragazza, inconsapevole di essere filmata e che Lao Wu osserva mantenendo una certa distanza. Junyang si appropria del punto di vista dello stalker e inizia a seguire la ragazza, la avvicina e scopre che questa è la figlia di Lao Wu, autore di home movies distorti e, questa volta, totalmente privi del consenso di chi è ripreso, utili a colmare un’assenza. Peiying è stata, allora, agli occhi dello stalker la figura sostitutiva di una figlia con cui, per motivi non specificati, ha perduto i rapporti?

Tentando di restituire anche a livello narrativo quell’ambiguità tutta interna all’immagine che il film non smette di indagare, al contrario dei poliziotti che osservando con pazienza le immagini delle telecamere di sorveglianza ritrovano la bambina, Stranger Eyes non salva i suoi personaggi dall’autoevidenza del suo tema. Così, seppur nel finale Junyang e Peiying, in inquadratura in cui i rami degli alberi prendono il posto delle videocamere, riescono finalmente a “vedersi”, allo spettatore è, per un’ultima volta, interdetta la possibilità di “vedere” quei personaggi. Anche questa, in fondo, è una forma di controllo.

Riferimenti bibliografici
R. Odin, Il film di famiglia, «Bianco e nero», Vol 1, Marsilio, Venezia 1998. 
C. Zimmer, Surveillance Cinema, New York University Press, New York 2015.

Stranger Eyes. Regia, sceneggiatura: Siew Hua Yeo; fotografia: Hideho Urata; montaggio: Jean-Christophe Bouzy; musiche: Thomas Foguenne; interpreti: Wu Chien-Ho, Lee Kang-Sheng, Anicca Panna, Vera Chen, Pete Teo, Xenia Tan, Maryanne Ng-Yew; produzione: Akanga Film Asia, Volos Films, Films de Force Majeure, Cinema Inutile; origine: Singapore, Taipei, Francia, Usa; durata: 125’; anno: 2024.

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