Si vedono sempre più di frequente film che rimasticano cliché, cascami di immaginario e detriti ideologici. Il tentativo è quello di raggiungere fin da subito, talvolta dalle prime sequenze, uno spettatore in cui non credono e non hanno mai creduto. Questa pratica scettica, che mina immaginario e forme del cinema fin nel profondo, è esplicitamente tradotta e legittimata perfino da principi come l’algoritmo di Netflix o le regole Academy per i film candidati agli Oscar.

In opposizione a questa prevedibile macchina, che riduce potenza immaginativa ed espressione a meri dispositivi combinatori di residui di immaginario e brandelli di cliché, esiste un cinema che quell’immaginario lo mette in scena, giocandoci attraverso la costruzione di zone folli di indiscernibilità tra percezione e immaginazione, anima e mondo, paure e desiderio, parole e canto, vecchiaia e giovinezza. Questo è spesso un cinema fatto da “grandi vecchi”, capaci di abitare uno spazio di libertà inimmaginabile per gli altri.

È il caso di Finalement, un grande  e “folle” film di Claude Lelouch, dove il protagonista Lino (Kad Merad), un maturo avvocato di successo, con una vita ricca di esperienza privata (più volte sposato, e con figli) e professionale, fugge nascondendosi, colpito da una malattia il cui sintomo è quello di far perdere ogni filtro a pensieri e parole: “Mi può capitare di dire tutto quello che penso, non ho più filtri”. L’assenza di filtri rende impossibile la vita sociale e Lino, gettando in acqua il telefono con cui la moglie, una bella attrice di successo, lo cerca, si dà alla fuga in clandestinità.

Qui, inventandosi “più vite” (“una è troppo poca”, dirà), si racconterà, con chi gli darà un passaggio in macchina, immaginandosi di essere di volta in volta uno dei diversi imputati che ha difeso: prete seduttore accusato di stupro; regista di film porno; professore di filosofia di cui è innamorata l’allieva, ma che viene sedotto dalla madre: la ragazza ucciderà prima la madre e poi si sparerà, e il professore, trovato con il fucile in mano, sarà accusato di duplice omicidio.

Ma Lino si immaginerà altre vite nella sua fuga attraverso la Francia, dal nord di Mont Saint Michel al sud di Avignone. Una di queste nascerà dall’incontro con una dolce contadina e allevatrice che lo troverà a dormire nel pagliaio. Questo incontro darà vita alla Storia di una tromba che sì innamorò di un pianoforte, il sottotitolo del film, che non è altro che l’esplicita ripresa de I ponti di Madison County di Clint Eastwood, dove viene ribaltata la struttura melodrammatica in quella commedica. Qui la donna (il pianoforte), alla seconda occasione, quando Lino (la tromba) tornerà a trovarla, avrà il coraggio di lasciare la famiglia e di seguirlo: l’accordo dei due strumenti musicali ci sarà.

Ma se la fuga passa per l’indossare più maschere e l’abitare più storie, per la mediazione di un immaginario cinematografico che viene esplicitamente citato, quello che rende felicemente entusiasmante il film è l’invenzione di un personaggio libero, che sospende lo spazio-tempo quotidiano (ruoli, obblighi e convenzioni), e che nella condizione del presunto malato è capace di generare la salute più forte, quella ispirata da un principio vitale e carnevalesco, dove la vita si afferma finalmente come “avventura”, “follia di sentimenti”, aperta al contingente e all’imprevedibile, lontana dal controllo, dal progetto e dall’ideologia.

Questa condizione libera colloca il soggetto in una situazione generativa e creativa, non granitica e difensiva, dove il caos dei sentimenti non è più rifuggito ma accettato ed accolto. E tale plasticità e caoticità del sentire trova nelle canzoni e nelle musiche, scritte da Ibrahim Maalouf, un elemento decisivo per la riuscita del film. La canzone che dà il titolo al film, Finalement, che nel finale l’uomo interpreta con la figlia, la cantautrice francese Barbara Pravi, afferma la gioia dell’infanzia e dell’assenza di rimpianto («Finalement, le paradis c’est l’enfance, finalement, il n’y a rien à regretter»), l’uguaglianza tra l’estate e l’inverno, il passare della vita a cui bisogna rispondere con la gioia di vivere sempre il presente. E tutto ciò avviene, con un ulteriore raddoppiamento simulativo, in un teatro di posa dove vediamo convergere tutti i personaggi che hanno attraversato il film, tenuti insieme nell’accordo di un sentimento di disponibilità verso la vita così come è e non come dovrebbe essere

È proprio questa prospettiva carnevalesca ed extra-temporale che incarna Lino a permettere ad un sentimento pervasivamente diffuso (l’unica cosa che conta nella vita è “amare ed essere amati”) di non farsi mai sentimentalismo, ma di esprimersi come un sentimento della vita segnato da curiosità e scoperta, capace di contrapporsi a schemi, cliché, sclerotizzazioni, ideologie che compongono e immobilizzano il nostro presente.

Finalment. Regia: Claude Lelouch; sceneggiatura: Claude Lelouch, Pierre Leroux, Grégoire Lacroix, Valérie Perrin; fotografia: Maxine Heraud; montaggio: Stéphane Mazalaigue; musiche: Ibrahim Maalouf; interpreti: Kad Merad, Elsa Zylberstain, Michel Boujenah, Sandrine Bonnaire, Barbara Pravi, Françoise Gillard; produzione: Les Films 13, France 2 Cinéma, Laurent Dassault Rond-Point, CANAL+, CINÉ+, France Télévisions; distribuzione: Europictures; origine: Francia; durata: 129’; anno: 2024.

Tags     Lelouch, Venezia 81
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