Una donna giace ad occhi chiusi su una sdraio verde nel patio di un’elegante casa vacanze. Un abito di un giallo intenso ne illumina la figura. Un primo piano incornicia la serenità di un volto pallido, da cui spicca il rosso vivace delle labbra. Immobile in quella posa, la donna somiglia ai soggetti di Gente al sole, il dipinto di Hopper che campeggia su una delle pareti della casa. In questa immagine non c’è inquietudine: mentre il giallo, invadendo l’inquadratura, sfuma verso il bianco, dallo schermo emana una quiete metafisica. Martha (Tilda Swinton), una delle due protagoniste di The Room Next Door di Pedro Almodóvar, è morta.
Gravemente malata di un cancro incurabile, infatti, la reporter di guerra newyorkese ha scelto lucidamente di morire, grazie ad una pillola che, a causa delle ipocrisie del sistema sanitario, ha dovuto ottenere in maniera illecita. Ha chiesto a Ingrid (Julianne Moore), romanziera e sua amica di vecchia data, di trascorrere con lei i suoi ultimi giorni, affinché si possa trovare nella stanza accanto quando praticherà l’eutanasia. Martha cammina verso la morte con fierezza, perché ama la vita al punto da non poter accettare di dover soltanto sopravvivere. Ingrid, come ha rivelato nel suo ultimo romanzo, invece, ha paura della morte, ma, in seguito ad un’iniziale reticenza, si ritroverà a toccarla con mano.
Ritrovatesi dopo anni di lontananza, le due amiche parlano, scrivono, si raccontano, si sfiorano e si specchiano. Così come liminale è il tempo in cui avviene il ricongiungimento tra Martha e Ingrid, liminali si rivelano gli spazi che occupano mentre si esibiscono nel loro passo a due. The Room Next Door è un film di non-luoghi (l’ospedale in cui avviene il primo incontro tra le due amiche, il parco che attraversano chiacchierando, la centrale di polizia dove Ingrid sarà interrogata, perché sospettata di favoreggiamento al suicidio), luoghi in potenza (l’appartamento di Ingrid, che sta traslocando e, fuor di metafora, è pronta ad un cambiamento nella sua percezione della vita e della morte) o luoghi ricordati (la casa in fiamme in cui ha perso la vita il padre della figlia di Martha, i teatri di guerra da lei attraversati, in cui l’unico modo che hanno i reporter per non essere sopraffatti alla morte è concedersi all’amore, come quello tra un suo collega fotografo e un carmelitano, in una storia raccontata dalla donna). In definitiva, è un film di soglie e attraversamenti.
L’unico luogo propriamente connotato è l’appartamento di Martha, in cui la donna si rifiuta di morire, perché ricco di oggetti e memorie che potrebbero portarla a un ripensamento. Così una casa fuori New York, affittata da Martha, diventa il palcoscenico del dialogo sulla vita e sulla morte che è il cuore del film. Uno spazio sospeso, come tante ambientazioni hopperiane, che si fa luogo di un riconoscimento quando viene abitato dai corpi e, soprattutto, dalle parole delle due amiche. Un limbo che sembra sempre sul punto di rivelarsi un set in un teatro di posa – come l’abitazione del personaggio interpretato sempre da Tilda Swinton ne La voce umana (2020) – perchè cassa di risonanza del cinema.
Nel tempo liminale che precede la morte di Martha, infatti, le due protagoniste guardano Buster Keaton e John Huston, perché il cinema è l’unica “distrazione” – assieme al canto degli uccelli – che riesce a concedersi la donna, incapace di concentrarsi per leggere o ascoltare la musica a causa della malattia. Ad essere chiamato in causa, però, è anche il cinema di Almodóvar stesso che nel mettere in scena gli attraversamenti di queste soglie, si allontana dalla sua Spagna e dalla sua lingua – si tratta del suo primo lungometraggio in inglese –, ma non dallo stile che lo ha reso autore riconoscibile, sempre nell’ottica di quell’incessante metamorfosi che caratterizza la filmografia del regista manchego. Così The Room Next Door è per l’autore spagnolo, abbandonato il postmodernismo degli esordi, metabolizzato il «sublime» (Minesso, Rizzoni 2010) dei capolavori, la nuova prova di un rinnovamento che, pur continuando a lambire le soglie del manierismo – eccezione apicale è Dolor y Gloria (2019) –, si rivela in questo caso più vitale che in altre occorrenze. Di una vitalità in minore, certo, ma pur sempre tale.
Torna la simbologia dei colori sgargianti – del verde e del rosso, in questo caso, che significano gli spazi e, attraverso i costumi, rispecchiano le emozioni delle protagoniste. Torna l’ispirazione al melodramma, e il riferimento a Sirk. Torna l’auto-citazionismo, più o meno esplicito – lo skyline newyorkese che non viene inquadrato ma si riflette, attraverso la finestra, sui volti delle protagoniste fa pensare allo skyline (costruito) di Madrid in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988). Torna, infine, la riflessione sul cinema stesso come luogo di soglia e dispositivo fantasmatico di negoziazione tra la vita e la morte – come già in Parla con lei (2002) e Gli abbracci spezzati (2009).
Ingrid riappare a Martha, che la crede morta, attraverso lo “schermo” di una finestra (di quella casa/limbo/set) – in un movimento à la Volver (2006) – e tenta di consolarla dicendole che quando il momento giungerà, avendolo già “visto” ed esperito, saprà come comportarsi. Soprattutto, però, squisitamente metacinematografica (e, a suo modo, fantasmatica) è l’apparizione di Michelle, figlia di Ingrid, dopo la morte di questa, interpretata dalla stessa Tilda Swinton. Ancora una volta è la casa/limbo/set il luogo in cui avviene il ricongiungimento post-mortem tra una madre assente (Ingrid aveva avuto la figlia in giovane età e, dopo esser stata abbandonata dal padre di questa, reduce del Vietnam con PTSD, poi morto in un incidente, si era totalmente dedicata al lavoro) e una figlia severa – “la scelta è tua” aveva detto la ragazza ad Ingrid, quando quest’ultima le aveva parlato dell’eutanasia. Il fantasma della maternità, tema così centrale di tutta la poetica del regista, anima anche il suo ultimo film.
Ascoltata da Ingrid la verità sul passato di Martha, Michelle, pur non potendola sostituire, ne “prende il posto” nel cuore della romanziera, che presto racconterà della vita e del coraggio della sua amica. Michelle occupa la stanza di sua madre e si sdraia nel luogo in cui Martha ha scelto di morire, quel portico che è soglia tra la casa e il bosco su cui si affaccia. Il bosco da cui proviene il canto degli uccelli che, come la neve nel finale di The Dead di Joyce, leitmotiv di tutto il film che ne complica il gioco di presenze fantasmatiche, cala lieve «su tutti i vivi e i morti» ad ogni nuova alba.
Riferimenti bibliografici
B. Minesso, G. Rizzoni, Il cinema di Pedro Almodóvar. Dal postmoderno al contemporaneo, Marsilio, Venezia 2010.
The Room Next Door. Regia, sceneggiatura: Pedro Almodóvar; fotografia: Eduard Grau; montaggio: Teresa Font; interpreti: Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro, Alessandro Nivola, Juan Diego Botto, Raúl Arévalo, Victoria Luengo, Alex Hogh Andersen, Esther McGregor, Alvise Rigo, Melina Matthews; produzione: El Deseo; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Spagna; durata: 107’; anno: 2024.