Parigi, 16 settembre 1977. Si entra nel film come attraverso una quinta teatrale, trovando una guida in due “figure di cornice”, i due assistenti più fedeli, che non ci abbandoneranno fino alla fine:  l’autista Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la cameriera Bruna (Alba Rohrwacher). Ci troviamo da subito davanti alla fine: è la morte di Maria Callas (Angelina Jolie). Il suo mito la precede, sta fuori dal film e – come vedremo – dentro il film. Può dunque iniziare una ricostruzione dell’ultima settimana di vita, fatta di peregrinazioni e recriminazioni, profonda introspezione, abuso di farmaci e allucinazioni, ricerca di un confronto con la sorella (Valeria Golino), esercizi di messa alla prova del proprio canto in quanto attestato di esistenza. Lo scorrere degli ultimi giorni è scandito dall’utilizzo del colore. Il passato, fatto di ricordi dolorosi (l’infanzia greca e l’occupazione nazista), tentativi di affermazione e stabilizzazione (gli anni milanesi), fughe d’amore e amori impossibili (Aristotele Onassis, interpretato da Haluk Bilginer) trovava invece espressione in una serie di flashback in un bianco e nero ovattato. Il ricorso a formati eterogenei, nelle riprese a colori, marca invece il passaggio tra diversi regimi del racconto: la ricostruzione delle performance nei più importanti teatri del mondo, le interviste televisive, le sue stesse allucinazioni.

Ecco un tentativo di sintesi di quello che viene descritto come l’ultimo capitolo della trilogia di Pablo Larraín sulle grandi icone femminili del Novecento. Si tratta di una descrizione tanto comprensibile quanto limitante. L’idea stessa di trilogia mi pare qualcosa di stretto – ci saranno pure altri film attorno a una trilogia, capaci di prolungarla, eventualmente, in una tetralogia, una pentalogia… – e non rende giustizia alla filmografia del regista cileno, interamente incentrata sui rapporti tra vita, storia e politica. Fin dagli esordi, dedicati a soggetti anonimi nel cuore del terrore dittatoriale, e fino a El conde (2023), tutto il suo cinema si caratterizza come “biografico”, in quanto riflessione su che cosa di specifico sarebbe una vita e quali le forme della sua scrittura.

Rispetto ai film precedenti, rispetto ai due ritratti di Jacqueline Kennedy e Diana Spencer, fare i conti con il personaggio di Maria Callas sembra porre una serie di problemi e sfide specifiche. Se con Jackie (2016) e Spencer (2021) si trattava di confrontarsi con due figure strettamente legate al potere politico, al contempo interpreti ed effetti di ben precise strategie propagandistiche e mediatiche, con Maria si ha a che fare con un diverso tasso d’intensità: quella di Callas è una forza al contempo centrifuga e centripeta capace di rivoluzionare le forme dello spettacolo, giocare un ruolo di primo piano all’interno del jet set internazionale tra gli anni cinquanta e settanta e, infine, influenzare tutti gli ambiti della creatività artistica, fino ai giorni nostri.

A colpire chi ha accompagnato la rotta cinematografica di Pablo Larraín fin dagli inizi, è il ridimensionamento dell’importanza assunta dal montaggio intermediale in quest’ultimo film. Se, quantomeno fin dai tempi di No. i giorni dell’arcobaleno (2012), il suo cinema si è caratterizzato per la capacità di tenere insieme il racconto storico e biografico con un’archeologia delle forme mediatiche del passato, Maria si caratterizza per il primato della finzione e non lascia spazio all’archivio. Nonostante il continuo passaggio tra diversi formati dell’immagine cinematografica, malgrado il continuo, esibito, finanche vistoso, gioco con la grana della pellicola, il presente e il passato di Callas sono in questo caso il frutto di una ricostruzione cinematografica basata sull’interpretazione offerta dalla diva Angelina Jolie della divina Maria Callas. Chi si aspetta di ritrovare quel gioco di innesti e intrecci di immagini d’archivio e ricostruzione finzionale, che ha contribuito a imporre il nome di Larraín come uno dei più interessanti registi contemporanei, resta inevitabilmente deluso.

Come già avveniva in Ema (2019), un’opera evidentemente molto lontana da Maria, la componente intermediale è tuttavia recuperata nel rapporto tra la messa in scena cinematografica e la messa in scena teatrale – che in alcuni casi travalica lo spazio scenico e invade la città, in una sorta di “expanded opera” – nonché mediante il confronto audiovisivo con un vastissimo repertorio musicale. Da una scena all’altra del film, il repertorio è dunque messo in tensione con le effettive capacità performative di Maria Callas nella seconda metà degli anni settanta e viceversa, in una sorta di cortocircuito tra l’arte e la vita, dove l’una costituisce tanto la prova quanto la negazione dell’altra. In tal senso, anche l’interpretazione attoriale di Jolie sembra giocarsi nel rapporto tra visibilità e ascolto, nell’impossibilità di restituire la grandezza e pienezza delle performance sceniche di Callas: sprigionare quell’estasi della voce come pura presenza, qualcosa di ormai fuori portata per la cantante stessa in quel momento della sua vita.

Scegliere di soffermarsi sull’ultima settimana, all’interno di un lungo periodo di malattia e crisi personale, significa riflettere sulla tenuta della voce più potente e dinamica del Novecento e, più in generale, sui margini di usurabilità di una delle più potenti icone del secolo. Se la questione della voce è centrale fin dall’inizio –  come qualcosa di mancante, come ciò che non c’è più e per questo, se è vero, minaccia tutto il resto – a veder bene anche l’immagine di grande espressività, vitalismo e “arcaicità” (Medea e le poesie dedicatele da Pasolini) comunemente associata a Callas appare in questo film come un ricordo sbiadito. Quando alla fine delle due ore di racconto, subito prima dei titoli di coda, il montaggio filmico inanella una serie di immagini di Maria Callas provenienti da vari archivi fotografici – scatti che la ritraggono nei suoi successi, nella mondanità e quotidianità – si ha come l’impressione di una non corrispondenza: tra quell’insieme di semplicità e ieraticità, che è stata Callas, negli anni di massima gloria, e lo stress del performare e dell’apparire, la smania della corrispondenza al proprio mito degli ultimi giorni. La scelta stessa di Jolie per interpretare tale ruolo, nella abissale distanza fisiognomica e “caratteriale” tra le due artiste, sembra concepibile proprio in questo senso, come rappresentazione della vita in quanto impossibile corrispondenza, scarto incolmabile con sé stessi.

Ricorrendo a una palette di soluzioni espressive consolidate, Maria è forse il più classico tra i biopic di Larraìn, quello che può garantirgli un successo (non soltanto a Venezia) e una circolazione su varie piattaforme. Sicuramente, è il più viscontiano tra i suoi film. Non tanto per la presenza di riferimenti ad alcune delle opere interpretate da Callas e dirette dal maestro milanese, quanto per la capacità di mettere a fuoco il rapporto tra le forme del repertorio artistico e le forme della vita storica e biologica. La tentazione, continuamente smentita dalla pratica, di concepire le prime come qualcosa di assoluto e le seconde come qualcosa di immutabile. Come dire che ogni grandezza e ogni bellezza sono inevitabilmente legate a un corpo, anche quando quest’ultimo sembra scomparire nella pura presenza della voce. Quella immaginata da Larraín è insomma una Callas fatta tanto di passione quanto di dissipazione. È come osservare l’entropia di una stella.

Riferimenti bibliografici

L. Aversano, J. Pellegrini, a cura di, Mille e una Callas. Voci e studi, Quodlibet, Macerata 2016.
M. Coviello, F. Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini Cosenza 2018.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel «biopic» italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.

Maria. Regia: Pablo Larraín; sceneggiatura: Steven Knight; fotografia: Edward Lachman; interpretiAngelina Jolie, Valeria Golino, Haluk Bilginer, Alba Rohrwacher, Pierfrancesco Favino; produzione: Fremantle, Komplizen Film, Fabula; distribuzione: 01 Distribution; origine: Cile; durata: 124′; anno: 2024.

Share