Lo avevamo lasciato con il ritratto di Jacqueline Kennedy, presentato proprio qua a Venezia nel 2016, e aspettavamo The True American, ispirato ai fatti dell’11 settembre 2001. E invece, dopo la sorpresa di Neruda (2016), ecco che Pablo Larraín disattende di nuovo le aspettative del pubblico con un film apparentemente inclassificabile: all’uscita dalla sala qualcuno parla di “capolavoro”, altri di un “videoclip di un’ora e mezza”, altri si lanciano a rivederlo nella proiezione successiva.

Ema (2019) è il titolo del film e il nome della protagonista (Mariana Di Girolamo): una giovane danzatrice e insegnante di ballo in una scuola elementare, sposata con Gastón (Gael García Bernal), un coreografo di dodici anni più vecchio di lei. Quando il film inizia, molte cose sono già accadute: i tentativi da parte della coppia di avere un figlio, l’adozione del piccolo Polo, una serie di incomprensioni e gravi incidenti domestici, fino all’abbandono, la restituzione del bambino agli assistenti sociali. La tecnica del campo e controcampo a centottanta gradi – che caratterizza buona parte della filmografia del regista – restituisce i dialoghi tra i due genitori che si rinfacciano quanto accaduto; i sensi di colpa di chi, sterile, non ha potuto procreare e di chi, come Ema, non è stato capace di interpretare il ruolo di madre.

Raccontato così, può sembrare un semplice film dai toni drammatici e melodrammatici, il cui esito narrativo può soltanto coincidere con la separazione della coppia o con un repentino e inatteso “rimatrimonio”. Ma Ema non è un dramma borghese, né una commedia. Fin dalle prime battute, quello che colpisce è l’ambientazione all’interno di una subcultura metropolitana (se ancora ha senso usare questa espressione), legata alla danza contemporanea e alla musica reggaeton. È infatti questo il modo scelto da Larraín – per sua esplicita ammissione in conferenza stampa – per confrontarsi con una generazione ancora in buona parte invisibile agli occhi dei media: quella di chi non ha conosciuto il Novecento e che sta sperimentando nuove forme espressive, codici relazionali, forme affettive e sociali.

Non appena compare sulla scena, il personaggio di Ema si presenta allo spettatore con i suoi abiti da danzatrice, i capelli color platino, i gesti nel vuoto perfettamente coordinati, lo sguardo sicuro. È una ragazza come tante ma – almeno agli occhi novecenteschi di Larraín e di chi scrive – il suo volto presenta tratti non completamente, non canonicamente, “umani”, per non dire post-umani. Come un’eroina tragica, ha abbandonato il proprio figlio e sconta l’impossibilità di riaverlo, trovando ostacolo nell’istituzione dei servizi sociali, che diventano un’entità morale se non metafisica. Ma quando fa buio, come un personaggio mitologico impiantato nel corpo di una Centennials, Ema si aggira per le strade di Valparaiso imbracciando un lanciafiamme: innesca la benzina e l’ossigeno presente nell’aria della città, brucia semafori e incendia automobili suscitando le attenzioni dei pompieri, che provano a spegnere il fuoco con l’acqua. Ed è proprio questa capacità di vivere lo spazio pubblico, distruggere e riconfigurare, fare breccia indistintamente negli uomini e nelle donne – espressa in forme ludiche quasi come se si trattasse di skill di un videogioco – a rendere possibile l’attuazione di un piano di ricongiungimento con il bambino e di allargamento degli orizzonti della famiglia.

La facilità di relazione di Ema diventa l’arma attraverso la quale sconfiggere o aggirare il destino. La sua bellezza algida e muscolare, unita al suo orientamento pansessuale, la pone al centro di un triangolo di relazioni caratterizzato da insoddisfazioni personali per l’impossibilità di avere un bambino. Trascendendo i canoni della morale familiare tradizionale e incarnando una forma di vita almeno apparentemente edonistica, Ema mette la propria fertilità al servizio di un duplice obiettivo: salvare il matrimonio con Gaston e, soprattutto, recuperare Polo. Diventare madre coincide per Ema con l’articolazione di un piano ben congeniato – alle spalle di tutti – e con un’avventura del corpo, talmente radicali da operare uno stravolgimento dell’idea stessa di famiglia nucleare e una fluttuazione delle identità di genere dei protagonisti.

Ema è un film diverso rispetto ai precedenti di Larraín. Mancano gli espliciti riferimenti ai regimi politici e alle figure di potere che avevano caratterizzato tanto la “trilogia della dittatura” quanto i più recenti film a tema biografico e politico. Manca quella pratica di rimontaggio di immagini d’archivio che – da Tony Manero (2008) a No. I giorni dell’arcobaleno (2012), fino a Jackie – ha suscitato polemiche critiche e contribuito alla definizione dello sguardo del regista cileno.

Eppure, a ben vedere, il ruolo che nei precedenti film era assunto dai documenti mediatici (che si trattasse della campagna pubblicitaria contro Pinochet o dell’apparato cerimoniale e mediatico dei funerali di JFK) è qui occupato dalla musica elettronica (composta per il film da Nicolas Jaar) e, soprattutto, dal reggaeton. Così come il prelievo di immagini mediatiche costituiva nei film precedenti di Larraín un modo per rivelare le forme della propaganda e la loro efficacia sui cittadini, così la musica contemporanea di Ema interagisce con i corpi del personaggi e si traduce capillarmente in posture, comportamenti, forme di vita.

Non che il reggaeton definisca integralmente le condotte di Ema o che le coreografie di danza di Gaston coincidano con la vita stessa del corpo di ballo. Piuttosto, il riferimento al mondo della danza e le aperture verso il musical e il videoclip sono ciò che trasforma il film in una riflessione contemporanea sui temi del corpo – il suo uso, i suoi usi – e dei gesti – finalizzati o meno –, nonché sulle idee stesse di individuo, di coppia, di collettività.

Come ha scritto Gilles Deleuze nel primo dei suoi scritti sul cinema, la storia della settima arte è fatta da personaggi e da oggetti capaci di rimanere impressi nella memoria degli spettatori proprio in nome delle loro potenza figurativa e concettuale, della loro capacità di incarnare idee, problemi, soluzioni al contempo estremamente concrete ed estremamente astratte: «Ci sono Lulu, la lampada, il coltello del pane, Jack lo Squartatore: soggetti presunti reali con caratteristiche specifiche e ruoli sociali, oggetti con usi specifici, connessioni tra questi oggetti e questi soggetti, in breve, uno stato di cose».

Sulla posizione di Larraín nella storia del cinema è troppo presto per esprimersi. Sicura è invece la capacità di questo personaggio – chiamiamolo Ema – di incarnare, in modo estremamente astratto e concreto, una serie di contraddizioni psicologiche e sociali che riguardano il tempo presente: ciò che ci tiene insieme e ciò che separa, ciò che fa “individuo” e ciò che è possibile chiamare “famiglia” o altro ancora.

Ema: di che cosa è, dunque, il nome? Per quanto riconoscibile sia la sua silhouette, mentre si agita nel lungomare di Valparaiso imbracciando il lanciafiamme, il senso della sua figura resta ancora in buona parte oscuro. Che cosa ci dicono i suoi ripetuti sguardi in macchina? E che cosa annunciano, di già presente o di imminente, le sue posture, i suoi comportamenti tremendamente in bilico tra cinismo e ingenuità assoluta. Uscendo dalla sala, ci sentiamo un po’ come suo marito Gastón, in una delle ultime inquadrature del film, all’interno della nuova casa, insieme alla nuova comunità affettiva e genitoriale: l’espressione è quella di chi ha assistito a qualcosa di straordinario eppure resta ancora, giusto il tempo di guardare il film ancora una volta, un poco confuso.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uso dei corpi. “Homo sacer”, IV, 2, Neri Pozza, Vicenza 2014.
M. Coviello, F. Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini, Cosenza 2017.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, tr. it., Ubulibri, Milano 1983.
R. De Gaetano, Amore, in Id., a cura di, Lessico del cinema italiano. Vol. 1, Mimesis, Milano 2014.

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