È vero che la mia terra è piccola
Ma ho sempre affabulato sui luoghi
inesplorati
Con una certa lietezza, quasicché non fosse
vero
Ma tu ci sei, qui, in voce.
(Pier Paolo Pasolini, Timor di me?)
Ricordare Maria Callas a quarant’anni dalla sua scomparsa partendo da questi versi di Pasolini tratti dalla più famosa delle poesie a lei dedicata, Timor di me?. Versi che, riletti oggi, riconsegnano, più delle tante parole spese per commemorarla in questo anniversario, il senso di un’esperienza di vita e artistica unica e irripetibile. Non ci sarà mai una nuova Callas per il semplice motivo che – come viene da pensare leggendo oggi Pasolini – non esisteranno mai più luoghi inesplorati in cui attestare una propria presenza fatta solo di voce. Luoghi che sfuggono alla visibilità assoluta del mondo e voci a cui piegare e sottomettere persino l’immanenza del proprio corpo. Prima sottraendolo all’incombenza dal suo peso organico, quasi a volerlo far “scomparire” in un’incredibile processo di dimagrimento (che notoriamente l’ha portata a modificare in modo radicale la propria immagine nel giro di pochi mesi nel 1954), e poi financo privandolo del “peso del reale”, negando il proprio essere nella reclusione dell’appartamento-eremo di Avenue Georges Mandel a Parigi in cui, dopo una lunga reclusione, ha trovato la morte quarant’anni fa.
Un corpo sottratto a se stesso affinché solo la voce potesse testimoniare l’evento di una presenza soggettiva nel mondo, il suo farsi una potenza destinale attraverso il tempo e nonostante la “costitutiva contingenza del suono”, per citare le parole di Elio Matassi di qualche anno fa, recentemente pubblicate da Quodlibet nel bel volume Mille e una Callas. Voci e studi.
Risulta però singolare che sia stato proprio Pasolini a descrivere la Callas come una voce assoluta e smarrita nell’abisso del mondo (“per me c’è un vuoto nel cosmo e da là tu canti” è il verso con cui si conclude la poesia). Pasolini che proprio in Medea aveva voluto invece privarla della voce per renderla puro volto, come nei suoi schizzi che la ritraevano in vacanza a Skorpios nell’estate del 1970 o sul set del film, quando lei, non ricambiata, e appena finita la lunga relazione con Onassis, sognava un amore impossibile con il regista che la stava guidando nella sua unica esperienza sul grande schermo. Medea (1969) è infatti un film interamente costruito su primi piani frontali e laterali della Callas, quasi che attraverso una sorta di montaggio seriale del suo viso, con i suoi lineamenti marcati e “arcaici”, Pasolini avesse voluto far propria la forza antica del mito originario (rappresentato per lui dall’incontro tra il mondo “sottoproletario, religioso” di Medea e quello “razionale, laico” di Giasone), destituendolo tanto dello psicologismo protomoderno del personaggio di Euripide quanto delle insorgenze preromantiche di quello di Cherubini. Ma su questo e altri aspetti della Callas “pasoliniana” ha ragionato molto lucidamente Stefania Parigi in un bel saggio dedicato al film intitolato La cantatrice muta di Pasolini, sempre contenuto nel volume Mille e una Callas, la cui pubblicazione rappresenta certamente il più significativo gesto commemorativo compiuto in Italia in questo anniversario.
Ora, sia detto per inciso: viene una certa tristezza a pensare che mentre Parigi, città in cui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, si appresta a ricordarla con una grande mostra-evento, l’Italia, in cui invece lei ha vissuto gran parte della sua vita, e la Scala, in cui ha costruito il suo mito eterno, abbiano mancato questa occasione per ricordare, in modo significativo, quella che probabilmente rimane la più grande leggenda che il teatro d’opera abbia mai avuto, e di cui la nostra cultura dovrebbe infine “appropriarsi”.
Ma detto ciò, cosa rimane realmente della Callas quarant’anni dopo, al di là del divismo, delle immagini da rotocalco, degli amori impossibili, della sua fine prematura e tragica (a cui sembra essere consegnata la sua memoria, specialmente nel vasto e disattento pubblico alle questioni teatrali e musicali)?
Certo, si può dire che la Callas sia stata forse la prima grande “attrice” della storia del teatro d’opera. La resa attorica dei cantanti, secondo un proposito che, perlomeno a partire da Wagner – e passando per Ejzenštejn, Appia, ecc. – ha rappresentato una delle grandi utopie registiche dello scorso secolo, ha probabilmente iniziato a trovare forma solo in quel leggendario incontro tra “divinità” artistiche che è stata la Traviata del maggio 1955 alla Scala, diretta da Luchino Visconti e in cui la Callas vestiva i panni di Violetta.
Ma “ridurre” la Callas alla sua immensa presenza scenica significa reificare il portato abissale che la sua esperienza ci ha lasciato a distanza di tanti anni. Quel portato infatti risiede in una vera e propria trasfigurazione del gesto espressivo che la sua arte ha operato all’interno della storia delle forme dell’esecuzione musicale, in un processo cioè che, dentro i limiti dell’umano e delle sue possibilità espressive, è stato interamente capace di trasfigurarlo e ripensarlo.
Un gesto che passa attraverso un timbro vocale impossibile da decifrare, in cui il dato empirico musicale è stato radicalmente sublimato, in cui i registri vocali maschili e femminili si sono dissolti in un abisso incommensurabile. Si ascolti, solo per fare un esempio, la sua esecuzione di Cortigiani vil razza dannata dal Rigoletto di Verdi durante le lezioni tenute alla Juilliard School di New York nel 1971-72. Qui non esiste più confine tra cantante e personaggio, tra registro baritonale e sopranile, perché il senso dell’Aria di Verdi è riportato a un movimento astratto e metastorico che è interamente pre-musicale. In ciò consiste la reale forza di un gesto, che si diceva unico e probabilmente irripetibile, che nel momento in cui ha preso corpo ha sublimato se stesso, ha risemantizzato l’idea e la prassi stessa del canto lirico producendo un radicale movimento di rottura impossibile e inimitabile.
È stato spesso sostenuto che la voce della Callas abbia rappresentato l’inserimento di un’istanza tragica all’interno del regime melodrammatico, e quindi, in qualche modo, un suo “innalzamento”. E sembrerebbe apparentemente vero se si pensa alle sue esecuzioni del repertorio belliniano e verdiano (Norma e Traviata su tutte), quelle che più risentono di un’eredità melodrammatica, e che la Callas ha avuto l’indubbio merito di rinnovare. Ma è all’interno di un abisso incommensurabile che precede la codificazione musicale, che cioè anticipa la formalizzazione e la grammatica del linguaggio, che vive l’immensità della sua voce.
La voce della Callas è portatrice di un’adesione radicale alla vita, di una cognizione del dolore dell’umano che precorre le forme del mondo. Per questo, pur avendo affrontato quasi esclusivamente il repertorio classico e romantico, in realtà non c’è stato nulla di più novecentesco della voce della Callas. Quello prodotto dalla Callas è il suono di un mondo in cui il tragico non esiste più, in cui l’umano ha disarticolato ogni forma (nel bene e nel male), in cui non rimangono che le ceneri della razionalità tragica.
Ascoltando e pensando a lei oggi, viene da chiedersi cosa avrebbe detto Alban Berg se l’avesse mai ascoltata. Se avesse cioè assistito a questo Erdgeist catapultato in un Ottocento (italiano e europeo) dalle cui estetiche lei si è sempre tenuta lontana anni luce. Distante tanto dalla vocalità intesa come esito delle dialettiche del corpo, delle vibrazioni oggettivanti dell’animo (quelle di cui parlava Hegel ne La filosofia della natura per intenderci), quanto dalle sue reificazioni strumentali in nome di una “purezza” del regime musicale (si pensi al famoso paragrafo 39 dei Supplementi al terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer).
Perché questa è stata Maria Callas, cantante greca nata a New York nel 1923, vissuta in Italia e morta a Parigi quarant’anni fa: una Lulu senza patria, una divinità messianica e metastorica del Novecento che con la solitudine della sua voce ha svelato e stravolto l’apparente armonia delle cose. Ricordarla, oggi, significa dunque operare una cesura storica, riaprire l’ordine di un discorso inarrivabile e per forza di cose interrottosi, riallacciare l’orizzonte del presente ad un’esperienza evenemenziale che ha ancora la potenza di indirizzarci e orientarci. Un gesto del pensiero e dell’azione che la cultura italiana avrebbe fatto meglio a fare.
Riferimenti bibliografici
P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 2006.
Id., Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 2002.
L. Aversano, J. Pellegrini, a cura di, Mille e una Callas. Voci e studi, Quodlibet, Macerata 2016.
S. Parigi, La cantatrice muta di Pasolini, in Mille e una voce. Voci e studi, cit.