Dopo il successo di Jackie alla Biennale del 2016 e dopo l’irruzione di Ema del 2019, Pablo Larraín torna a Venezia con un nuovo film a tema biografico, questa volta dedicato a Diana Frances Spencer, meglio conosciuta come Lady Diana o Lady D. La trama è semplice e procede in modo lineare. Sono le feste natalizie. La Regina, il consorte Filippo di Edimburgo, Carlo, Diana e i loro figli, tutti seguiti (o preceduti?) da un infinito apparato di militari, cuochi e aiutanti, si ritrovano presso la residenza di Sandringham. Le pareti gelide della vecchia dimora e le tradizionali attività di caccia sembrano garantire il mantenimento di una tempra robusta per i più anziani e la giusta educazione per i piccoli Henry e William. Ma qualcosa deve essere andato storto da qualche parte.

Quando il film inizia, la storia di Carlo e Diana è già in crisi da un pezzo e forse non soltanto la loro storia. Larraín non la ricostruisce né, tantomeno, mira a rivelare retroscena. L’obiettivo non è produrre un ritratto realistico (la somiglianza la lasciamo a The Crown), ma riconoscere a Diana Spencer lo statuto di “personaggio concettuale”, una figura reale e immaginaria al contempo, capace di incarnare lo spirito di fine secolo, una fase di svolta nel rapporto tra individuo, potere e società, nonché di toccare la sensibilità di milioni di cittadini e di spettatori, con la sua vita e con la sua morte.

Per quanti temono che Spencer possa essere una copia di Jackie, il nuovo film prosegue la riflessione avviata dal regista fin dai suoi primi film, dedicati alla dittatura cilena. A ben vedere, tutto il cinema di Larraín consiste in un grande progetto di geofilosofia politica: la messa in conflitto tra le forme dello Stato e quelle del Capitale, tra la potenza territorializzante dell’istituzione statale e quella deterritorializzante del mercato e della comunicazione globale, tra l’idea di disciplina e il commercio delle differenze.

Presi all’interno di tale conflitto sono le vite dei protagonisti, quasi sempre uomini o donne soli. Basti pensare al personaggio centrale di Tony Manero (2008), febbrilmente attratto dall’icona statunitense di John Travolta ma sprofondato nel terrore della dittatura di Pinochet. Oppure pensiamo al protagonista di No. I giorni dell’arcobaleno (2012), il pubblicitario capace di proiettare il Cile fuori dalla dittatura ma soltanto per darlo in pasto al neoliberismo sfrenato degli anni Ottanta. La questione diventa dunque esplicita nei film espressamente biografici come Neruda (2016) e, soprattutto, Jackie: il ritratto di una straordinaria figura femminile in grado di incarnare tanto il portato tradizionale del ruolo istituzionale di first lady vedova di JFK (la sua “maestà” durante i funerali) quanto quello di icona della moda (la sequenza finale con i manichini di Chanel).

Spencer è dunque prima di tutto il ritratto della donna più sola dell’universo, nei suoi giorni più bui, prima dello scioglimento del matrimonio con il principe Carlo. È il ritratto di una donna vittima del proprio contesto familiare e dell’impossibilità di tenere insieme la normatività e freddezza dei protocolli reali e un temperamento esuberante, che trova espressione nel rapporto con i figli (memorabile la sequenza del gioco del Sergente) e rilancio nel sistema dei media degli anni Novanta.

Se le inquadrature riguardanti la vita della famiglia reale sono perlopiù totali con la macchina fissa oppure carrelli, la presenza di Diana segna l’irruzione della camera a mano e della musica jazz e pop, di uno sguardo mobile, percettivo, sensibile. Il corpo di Diana è l’oggetto sul quale pretendono di agire le forme di disciplinamento (l’atto della pesatura all’inizio e alla fine del soggiorno), affinché finalmente si lasci inquadrare nell’iconografia tradizionale. Ma la macchina da presa – che difficilmente si distacca dalla protagonista – esalta i piccoli gesti e i movimenti che caratterizzano il suo corpo come un corpo moderno. L’impossibilità da parte di Diana di conformarsi all’orizzonte di valori e posture della famiglia reale innesca dunque un percorso melodrammatico, dove le fantastiche apparizioni spettrali di Anna Bolena – la moglie di Enrico VIII, condannata e uccisa per adulterio e alto tradimento –  spingono e infine sollevano la Principessa da un imminente destino di morte.

Contro il mito e la storia dei Windsor, quello che Diana rivendica è il diritto alla quotidianità e alla contemporaneità. Ma questa rivendicazione – il desiderio di vestire, mangiare e vivere come tutti – tende a essere schiacciata sull’idea di quotidianità dei tabloid scandalistici. I suoi sfoghi diventano merce di scambio nella cerchia dei prossimi come negli ambiti della comunicazione di massa. Come le dirà la regina, nell’unico dialogo tra le due donne di tutto il film, “Vedo che ti fanno molti ritratti, ma l’unico ritratto che conta è quello sulla banconota da 10 sterline”. Come a voler sottolineare che l’unico modo per sottrarsi al “commercio degli sguardi” è quello di conformarsi e identificarsi completamente nel proprio ruolo.

Spencer è dunque il ritratto di una figura storica sintomale. È l’idea che anche un membro della famiglia reale possa ritornare al proprio cognome da ragazza e rivendicare lo statuto di suddito – almeno per un pomeriggio ogni tanto –  per sottrarsi all’oppressione del protocollo istituzionale. È l’affermazione di nuove posture e forme di vita, di una rinnovata idea della figura femminile in rapporto e in attrito con un potere politico fondato sulla tradizione.

Se confrontata con le apparizioni pubbliche del personaggio storico di Diana Spencer, l’interpretazione di Kristen Stewart è dunque straordinaria non tanto per la somiglianza, quanto per la resa espressiva (in un certo senso eccessiva o iperbolica) di alcuni tratti utili a dare forma alla figura concettuale di fine secolo. Dall’inizio alla fine, il personaggio si caratterizza per una fisionomia slanciata e per un’andatura scanzonata, a tratti fluttuante. Per questa via, trova sicuramente espressione il tema dei disturbi alimentari di Diana, al quale il film dà ampio spazio. Ma parlando di modelli iconografici, le inquadrature della donna chiusa nel bagno (delle quali la locandina è un ritaglio) e i suoi gesti di sofferenza e autolesionismo richiamano alla memoria quei corpi contorti e lividi che emersero tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nella cultura visuale europea. I corpi allungati e straziati – ma anche bellissimi, di una nuova bellezza – presenti nelle opere di autori come Klimt, Schiele, Kokoschka, tutti nati e cresciuti al tramonto di un grande impero.

È così che, quando si intuisce la fine del film, si apre uno spazio per considerazioni di carattere genealogico e storiografico: Guglielmo il Conquistatore, Elisabetta la vergine… più il tempo passa e più la storia tende a fare economia, riassumendo figure di portata epocale in un solo aggettivo. “Che aggettivo sarà utilizzato tra mille anni per parlare di me?”. “Forse sarai Diana la scioccata, la sconvolta (the shocked)”, scherzano Diana e la sua assistente, la sola interlocutrice e il solo affetto nei giorni più bui.

Ed è proprio la commistione di shock e bellezza che sembra caratterizzare quest’ultimo film biografico-politico di Pablo Larraín. Quella emanata da Diana Spencer è la luce del secolo dopo, una luce che non avrebbe fatto in tempo a vedere.

Riferimenti bibliografici
M. Coviello, F. Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini, Cosenza 2017.
G. Tagliani,  Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

Spencer. Regia: Pablo Larraín; sceneggiatura:  Steven Knight; fotografia: Alexander Dynan; montaggio: Sebastián Sepúlveda; scenografia: Guy Hendrix Dyas; costumi: Jacqueline Durran; trucco: Wakana Yoshihara; musica: Jonny Greenwood; interpreti: Kristen Stewart, Timothy Spall, Sean Harris, Sally Hawkins, Jack Farthing, Olga Hellsing, Thomas Douglas, Mathias Wolkowski, Oriana Gordon, Amy Manson, Niklas Kohrt, Richard Sammel; produzione: Komplizen Film, Fabula, Shoebox Films; origine: Germania, Cile, Regno Unito; durata: 111’; anno: 2021.

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