Un breve video. Un piano-sequenza di soli 16 secondi, accompagnato da un graffiante commento sonoro (che Shazam riconduce subito al musicista phonk HXVRMXN) e circolante prima nei canali Telegram della propaganda russa (tra cui quelli di Voin DV, come attesta il logo impresso nella parte bassa dell’immagine), per poi essere rimediato anche da fonti di news occidentali (nel marzo 2024 compare sul sito di Rai Multimedia, che però lo attribuisce alle forze armate ucraine).

Nell’immagine, la riconoscibilità della scena è piuttosto compromessa, complice un bianco e nero sgranato che sembra come derealizzare la ripresa, e non è possibile distinguere divise o armi in uso: si percepisce solo uno sfondo vagamente astratto, simile all’effetto neve di una TV non sintonizzata, da cui emergono due cluster di pixel rossastri che, dai movimenti, si danno a intendere come corpi umani. Sono due soldati accovacciati, su cui gli UAV nemici (UAV sta per Unmanned Aerial Vehicle, aeromobili a pilotaggio remoto) a un tratto sganciano una bomba. L’ordigno procede inesorabile nella sua discesa verticale; uno dei due se ne accorge, allarmato probabilmente dal suo sibilo, e tenta dunque un balzo disperato; ma è tardi, l’ultima cosa che il video mostra è infatti l’impatto a suolo, che lo investe in pieno con una nuvola vermiglia (stroncando la “forza viva nemica”, come recita la dicitura in cirillico che, poco prima della deflagrazione, appare in forma di didascalia). Il video in questione non veicola certo un’inedita versione della guerra: anzi, si può ben dire che configuri un impianto visuale sempre più ricorsivo nell’immaginario bellico contemporaneo, e proprio alla luce di questa sua esemplarità risulta significativo per diversi motivi.

Il primo è ovviamente la sua prospettiva zenitale, a filo di piombo. La resa planimetrica della realtà di cui si fa operatore tradisce infatti immediatamente la matrice aerea, o meglio dronica, del filmato: le cui immagini forniscono certo una copertura maggiorata del territorio, ma talvolta, come in questo caso, anche una minore possibilità di distinguerne i dettagli. Rilanciando così, e rendendolo in qualche modo impellente, un ragionamento intorno a quella soglia di percepibilità (Weizman 2022) che arbitra la nostra cognizione di conflitti sempre più dominati da prospettive e tecniche di acquisizione non antropiche.

Il secondo è l’ostentazione del mirino, dell’interfaccia dell’arma teleguidata, composta qui da un sistema di linee bianche che si intersecano al centro dell’immagine: l’azione del drone sta infatti integrando la défaillance scopica dell’occhio umano, geometrizzando lo “sguardo” attraverso una traiettoria oggettiva, calcolata da un intervento macchinico e computazionale. A essere scalzata è dunque quell’obsoleta linea di mira che si affidava all’interpretazione soggettiva: quella che era anche una linea di fede (Virilio 1996) tracciata da un improvvisato e contingente allineamento che partiva dall’occhio, attraversava il mirino, per poi di lì raggiungere il bersaglio (incrociando idealmente le dita). Anche in questo senso, verrebbe da dire, nulla di nuovo: se non fosse per i legami che i primi due punti intrattengono con il terzo motivo di interesse.

Ciò che il video mostra, del resto, non è il risultato di uno “sguardo”. Non solo nel senso che non è coinvolto alcun apparato oculare, ma proprio perché non si può parlare di visione, di performance ottica. Il video infatti ci chiama a osservare una termografia, e quindi l’esito di una percezione non visiva, di un monitoraggio operato nella banda elettromagnetica dell’infrarosso lontano (lontano, s’intende, dal limite della luce visibile). Il confronto che il video impone è pertanto con un’immagine post-ottica, che restituisce la realtà nei termini di un campo definito da un’energia emessa (il calore) che integra, o sostituisce totalmente, un’energia riflessa (la luce); un’immagine appunto termica, che rileva la presenza al suolo di un aumento di temperatura preciso e localizzato, e che così facendo, rivela due corpi che tentano di mimetizzarsi alla vista.

Ma come, e soprattutto cosa, si coglie della guerra attraverso il thermal imaging? E quale ri-organizzazione della percezione tale tecnologia permette allora di avviare? È il cinema contemporaneo a essersi proposto quale agente tra i più impegnati nel rispondere a queste domande, problematizzando la questione del riferimento termico anzitutto in merito al corpo del nemico. Va detto, con una differenza decisiva rispetto al passato: non si tratta più infatti di ricorrere a ipotesi visionarie e fantascientifiche, mettendo in scena situazioni di conflitto (o sorveglianza) tipiche del cinema di qualche decennio fa – nel solco per esempio di film come Robocop (Verhoeven, 1987) e Predator (McTiernan, 1987), in cui tale surplus sensibile veniva esplicitato rispettivamente dalle soggettive di un super-poliziotto cyborg e di una temibile creatura aliena. Bensì di ricostruire, quando non documentare, possibilità che la macchina della percezione militare ha reso oggi assolutamente concrete, reali.

La plongée termica è del resto la soluzione visiva adottata nell’incipit di Atlantis (Vasyanovych, miglior film a Venezia 2019 nella sezione Orizzonti), film che immagina il ritorno a una presunta normalità dopo la fine della guerra russo-ucraina, ma che si apre mostrando invece la fine di una vita: sottratta, al contempo, sia all’ordine del biologico (il soldato che vediamo ancora vivo viene barbaramente trucidato sotto i nostri occhi), sia all’ordine del percepibile (il suo corpo perderà calore, e quindi colore, ma intanto viene sepolto sotto uno spesso strato di terra, che lo rende insondabile a sensi e sensori).

A proposito di colore: il cromatismo artificiale dovuto all’impiego degli pseudocolor (toni artificiali che nulla hanno a che vedere con la concezione ottica del colore che ci è familiare, e che conferiscono all’immagine un aspetto anti-mimetico, innaturale, a tratti lisergico) è invece centrale in altri due titoli. Si tratta di Disco Boy (Abbruzzese, 2023), in particolare durante il momento del duello nella giungla namibiana che coinvolge un legionario e un ecoterrorista (uno scontro che, in forza di tale trattamento estetico, così come della relativa palette, viene proposto come una sorta di danza tribale, tanto ammaliante quanto letale); e la La zona di interesse (Glazer, 2023), che pur non raccontando certo di un conflitto attuale, esce letteralmente dall’ottica della Shoah ricorrendo a una tecnologia chiave del contemporaneo, e predisponendo proprio termicamente il controcampo eroico dell’immaginazione (mentre il padre di famiglia nazista legge una favola della buonanotte ai figli, una ragazzina della Resistenza polacca, irriconoscibile poiché intercettata da una termografia in bianco e nero, che risulta perfettamente dissonante dalla luce naturale che domina nel film, sotterra del cibo là dove i prigionieri del Campo possono trovarlo).

L’impossibilità di riconoscere i corpi visualizzati è d’altronde un fattore imprescindibile per valutare la prestazione referenziale della termografia, che dei soggetti cui rimanda non fornisce né tratti fisiognomici né dettagli, ma solo una sfavillante, anonima silhouette. Tanto che, nel buio pesto, è impossibile verificare se un corpo rilevato abbia in mano un bastone oppure un fucile, e quindi determinare se sia un pastore o un guerrigliero: come sottolinea la voice over di Éléonore Weber ne Il n’y aura plus de nuit (2020), documentario di montaggio composto da thermal imaging militare prodotto dalle truppe americane e francesi durante interventi armati in Afghanistan, Iraq e Pakistan.

Negli ultimi anni, insomma, il cinema si è affermato come un laboratorio visuale che è bene frequentare se ci si vuole confrontare, tra gli altri e molteplici contributi, anche con questi sguardi fittizi. In forza degli esempi filmici sopraccitati, quello di rivelare il corpo del nemico in diversi orizzonti visuali del conflitto appare infatti come un proposito che si traduce non solo nel gesto di s-velarlo (rendendolo cioè percepibile), ma anche di ri-velarlo (di velarlo ulteriormente, facendo cioè avvertire la presenza, il lavoro, le conseguenze di quel livello che si incarica della sua mediazione). Un’immagine solo apparentemente neutra, qual è quella termografica (che non può distinguere il genere, l’etnia, né l’aspetto fisico dei bersagli che “attenziona”) si configura così come uno strumento tutt’altro che equanime. Abrogando le leggi dell’ottica, alterando la foggia cromatica, sottraendo prospettiva e ombre, minando i principi di riconoscimento a favore di un’individuazione senza identità, essa si definisce, anzitutto nel quadro bellico, come metronomo di una rinnovata partizione del sensibile (Rancière 2016), e quindi come regolatore di ennesimi rapporti di potere tra chi ha accesso a tecnologie, media, informazioni, e chi all’opposto ne sconta la privazione. Tra coloro che detengono il controllo e coloro che, come due soldati rannicchiati al suolo, a quel controllo sono a turno assoggettati.

Riferimenti bibliografici
J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016.
P. Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione, Lindau, Torino 1996.
E. Weizman, Architettura forense, Meltemi, Milano 2022.

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