Una famiglia tedesca gioca sulla riva di un fiume, immersa nella rigogliosa vegetazione che risplende sotto i caldi raggi del sole, cullata dallo scorrere della corrente. La giornata è appena iniziata, è tempo di tornare a casa: un campo lungo ci mostra un meraviglioso giardino, ricco di fiori e piante splendide, dove il gruppo si raduna sorridente giocando con i bambini più piccoli. Qualcosa però comincia ad insinuarsi tra lo spettatore e le immagini armoniose sullo schermo. Indistinto, ma costante, un rumore che contrasta con la tranquillità del nucleo familiare crea il soundscape del luogo, accolto però dall’indifferenza generale. Gemiti. Grida. Ringhi di cani. Spari. È tutta una questione di prospettiva: con un improvviso controcampo viene svelato lo spazio che completa l’area circostante. La macchina da presa, che si trova ad altezza di sguardo, inquadra un alto muro grigio, non sufficiente a nascondere quello che si trova pochi metri dopo: fabbricati, filo spinato e le ciminiere di Auschwitz che rilasciano costantemente il fumo denso dei corpi bruciati degli ebrei deportati.
Quella che abbiamo seguito fino a questo punto è la vita di Rudolf Höß, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz e personalità di spicco del Terzo Reich (colui che ha introdotto l’uso del gas Zyklon B per facilitare lo sterminio), residente nella cosiddetta Interessengebiet, zona di interesse. Si tratta di un luogo prossimo ai campi di concentramento in cui vivere, per comodità, insieme alla propria famiglia. Jonathan Glazer con The Zone of Interest, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, racconta la quotidianità di questa famiglia, l’impalcatura di menzogne, retta da discorsi superficiali, falsi sorrisi e sguardi ciechi: un’apparente normalità in cui la vita può continuare a scorrere ignorando l’orrore.
L’unico anello di collegamento tra le due realtà è proprio Höß, spesso mostrato intento a fumare immerso nei suoi pensieri, evidenziando con il suo gesto il fumo rilasciato dalle ciminiere sullo sfondo. Per il suo ruolo di comando è obbligato ad entrare all’interno del campo. Quello che però vede, non viene mai mostrato sullo schermo; si intensificano le voci, le urla di fanno sempre più vicine, ma come la sua famiglia lo spettatore non è in grado di vedere la realtà. Prima di entrare in casa, le scarpe vengono con cura ripulite dal sangue per non spezzare l’illusione, ma è impossibile chiudere fuori dalla porta il frastuono. È proprio quello che viene negato allo sguardo, alla conoscenza, a fare ancora più paura.
È attraverso il lavoro compiuto sul paesaggio sonoro che in The Zone of Interest si forma una netta discrepanza tra immagini, discorsi e suoni. L’irreale perfezione a cui gli Höß ambiscono viene plasmata anche attraverso inquadrature estremamente equilibrate, sulle quali la macchina da presa indugia lasciando che le azioni prendano vita all’interno dell’architettura e della folta vegetazione del giardino. La costante difesa di questa apparente normalità avviene nei discorsi dei personaggi che popolano le mura: chiacchiere superficiali, racconti di giornate vuote, che cercano di coprire il costante rumore proveniente dal campo. Infatti, la realtà viene rivelata dalle impronte sonore che vanno ad influire sul ritmo dell’esistenza della famiglia Höß.
Il giorno, grazie alla sua luce, sembra poter lavare via la colpa, mentre la notte, nel buio delle stanze, senza nessuna distrazione possibile, il frastuono dei forni sempre in funzione diventa impossibile da ignorare, turbando ossessivamente il sonno di chi risiede nella casa. «La notte è il momento dell’azione scellerata, della paura, dell’abbandono dei fantasmi, di ciò che non si vede o non si deve vedere. La notte è l’estremo da cui l’uomo per sua natura rifugge, come scrive Tzvetan Todorov, l’estremo cui tuttavia si è messi, non a caso, di fronte, provocatoriamente faccia a faccia» (Guerra 2020, p. 24). Nell’oscurità, c’è chi cerca di mantenere vivo l’autoinganno, come Rudolf e sua moglie Hedwig, la cui risata sguaiata (l’unica presente nel film) rimbomba nella penombra, animalesca, sporca, sbagliata. Non per tutti è così semplice affrontare le ore notturne: i figli più grandi rimangono infatti costantemente svegli mentre la neonata piange disperata appena le luci si spengono. Per chi non è in grado di conformarsi a quel mondo, resistere è impossibile. L’unica figura che riesce ad accorgersi della farsa grottesca da cui è circondata è la madre di Hedwig, ad Auschwitz per qualche giorno per visitare i parenti. L’iniziale orgoglio provato dalla donna verso la figlia, che dal suo status di casalinga è riuscita a diventare la “regina di Auschwitz”, come la definisce amorevolmente il marito, scompare proprio quando arriva il momento di mettersi a letto. In piedi tutta la notte, non riesce ad evadere dalla realtà che la colpisce senza filtri quando l’udito non può più essere ingannato: la sola opzione è quella di scappare dalla zona di interesse, lasciando un biglietto, prima che sia tardi e mentire a sé stessi diventi troppo difficile.
È attraverso la scelta di utilizzare campi medi e lunghi che Glazer amplifica l’impossibilità di empatizzare con i personaggi: non è mai possibile vederli in volto in modo ravvicinato, vedere le loro espressioni e i loro sguardi, se non per pochi istanti. I movimenti di macchina diventano prolungamento della stessa incapacità di guardare e concepire gli orrori al di là del muro, con campi e controcampi che si susseguono rapidi, senza fermarsi a indagare i dettagli. Rendendo maggiore la profondità delle inquadrature, sullo sfondo sono sempre presenti le ciminiere ed il filo spinato, che contrastano in modo netto con l’armonia delle attività svolte dai personaggi. Gli unici primi piani sono dedicati ai fiori coltivati da Hedwig, rosa e rossi, splendenti gocce di sangue, bellissime grazie alla fertilità della terra, coperta da uno spesso strato di cenere. È proprio per l’amore verso il suo floreale regno che la donna, anche quando il marito dovrà allontanarsi per lavorare in un altro campo di concentramento, pregherà in lacrime di essere lasciata lì con figli e domestiche per non dover abbandonare tutto: ormai anche lei è un ingranaggio del perverso meccanismo. Protagonista indiretta dello sterminio, testimone consapevole ma silenziosa, preferisce far crescere i suoi bambini giocando con i denti dei morti provenienti dal campo e con le uniformi naziste uguali a quelle del padre, circondati dalle urla e dalla sofferenza, piuttosto che lasciare dietro di sé quella corona tanto faticosamente conquistata di sovrana della sua perfetta Interessengebiet, popolata solo da incubi e piante.
L’unico momento di cedimento rispetto all’apparenza coglie però proprio Rudolf Höß, quando si trova distante da casa. È stato promosso e la sua “rapidità ed efficienza” nell’eliminazione degli ebrei gli consentono di entrare nelle grazie di alcuni dei più importanti esponenti del governo. L’entusiasmo per il suo nuovo ruolo e per il suo probabile rientro ad Auschwitz dalla famiglia svanisce dopo una festa, ennesima dimostrazione di colorata e luminosa ipocrisia; mentre scende le scale del palazzo per andare via, sembra essere assalito dall’improvvisa consapevolezza delle sue azioni. Si piega e sembra non riuscire più a trattenere un conato di vomito.
All’improvviso, silenzio. Lo spettatore non è più vicino a Rudolf, ma attraverso un piccolo spiraglio di luce viene proiettato nel presente del museo istituito all’interno degli edifici di Auschwitz. Per la prima volta, nessun suono proviene più da quelle costruzioni, perché la morte ha avuto il sopravvento. Migliaia di scarpe, borse, oggetti di vita quotidiana accatastati all’interno di teche di vetro vengono mostrate sullo schermo. La voce dei morti non si può udire, ma è impossibile cancellarne la memoria. Solo pochi minuti, che bastano per creare una discrepanza netta con il tappeto sonoro fatto di dolore presente in tutto il resto del film. Una volta che si attraversa di nuovo il buco, però, per Rudolf tutto può tornare alla normalità. Si è trattato solo di una piccola debolezza; il vomito rimane bloccato in gola, la colpa non emerge, neanche questa volta riesce a prendere coscienza dell’orrore. Scende lento le scale verso il pianerottolo, scomparendo dall’inquadratura, mentre la camera rimane immobile. Basta solo fare un altro sforzo, chiudere gli occhi ancora per un po’: la famiglia lo sta aspettando e una volta nel suo giardino lo sterminio sembrerà solo un brutto incubo che i cespugli di rose coperti di cenere possono continuare a nascondere.
Riferimenti bibliografici
M. Guerra, Il limite dello sguardo, Raffaello Cortina, Milano 2020.
The Zone of Interest. Regia: Jonathan Glazer; sceneggiatura: Jonathan Glazer; fotografia: Łukasz Żal; montaggio: Paul Watts; interpreti: Christian Friedel, Sandra Hüller; produzione: Film4, Access, Polish Film Institute, JW Films, Extreme Emotions; distribuzione: A24, Gutek Film; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito, Polonia; durata: 106′; anno: 2023.