C’è un momento in cui il cinema smette di raccontare storie e modellare immaginari, sviluppare temi e codificare generi, e diventa qualcosa che sempre è stato: una pura modulazione dello spazio-tempo. Un modo cioè di “scolpire il tempo” – come dice Tarkovskij –, cioè di farlo depositare nella consistenza della materia che accede ad immagine. Quando questo accade, sentiamo che nel cinema emerge qualcosa di “originario”, non nel senso di qualcosa che era all’inizio e ora non è più, ma nel senso di qualcosa che continua ad originarsi nelle immagini, e che consente loro di evitare di trasformarsi in meri dispositivi narrativi e semiotici.
È quello che vediamo in un film sorprendente come Atlantis di Valentyn Vasyanovych. Qui in gioco non è solo il destino di un soldato ucraino, Sergeij, che a guerra finita con la Russia non riesce a riprendere una vita normale, e in un disadattamento radicale partecipa come volontario al recupero e alla identificazione dei cadaveri della guerra. Qui non c’è solo la traccia narrativa del ritorno del soldato dal fronte, e del disagio perenne in cui si ritrova. Questo è un tema frequente di molto cinema americano, e non sarebbe una novità. Qui c’è qualcosa di molto più potente, il ritorno impossibile di quel soldato (in un futuro prossimo indicato nel 2025) non viene narrato nel concatenamento orizzontale delle immagini (nella loro spinta “centrifuga”, direbbe Bazin), ma viene raccontato attraverso il depositarsi nelle immagini di corpi, materie ed atti. Sono le inquadrature fisse, la cui immobilità del punto di vista restituisce la continuità dell’evento mostrato, a dominare.
Ma questa fissità del punto di vista, posto a distanza media da ciò che di significativo accade, è associata ad una profondità nel campo piuttosto che a una profondità di campo. Non c’è infatti interazione drammaturgica tra ciò che sta nell’antepiano e ciò che c’è nel retropiano. E lo sfondo è composto da elementi di paesaggio (più che da un paesaggio in sé), naturali e umani: da scorci desertici a camion e uomini in movimento. Questa fissità e questa visione composta è rafforzata spesso dalla presenza di “sovra-inquadrature”, di schermi (finestrini di automobili, vetrate) che raddoppiano nell’immagine lo schermo più grande.
Ora, se questo accade, se in Atlantis la forma emerge per la sua immobilità, o anche per la sua misurata mobilità (nel caso di un lento piano-sequenza che accompagna Sergeij nell’attraversamento di una casa ridotta in macerie), se questo accade è esattamente per la ragione opposta ad ogni uso estetizzante dello sguardo e della forma. Quella forma serve a rivelare e manifestare tutta la densità, la forza e l’intensità della materia mostrata. Materia che è composta di corpi e di parole, di morti e di vivi.
Due momenti a tal proposito sono esemplari. La svestizione e l’identificazione delle singole parti (dalla divisa lacerata ai frammenti di denti) del cadavere di un soldato in via di mummificazione. Gli atti sono accompagnati da un’analitica descrizione che serve alla stesura di un verbale. L’intera scena è restituita in tutta la sua durata dalla fissità di un punto di vista che tiene insieme i quattro uomini che sono nella stanza senza finestre. In nessun altro modo la restituzione cadaverica dell’umano poteva essere resa in modo più duro.
Un secondo momento è nella scena di sesso con Katya, la ragazza che Sergij accompagna nel recupero dei corpi. Tutto accade nel vano del camion con cui vanno in giro: i due si spogliano, si abbracciano, si accoppiano cambiando posizione dei corpi, e la macchina da presa rimane sempre alla giusta distanza, riconsegnando in tutta la dolcezza e l’intensità l’incontro sessuale (di cui è difficile ricordarne altri di pari forza al cinema) di due che in quell’abbraccio ritrovano il mondo al quale altrimenti sentono di non appartenere. Finito di fare l’amore, apriranno il portellone sul retro del camion, e allora vedremo che la pioggia battente con cui aveva avuto avvio l’incontro d’amore si è convertita nell’immagine di una quiete serena, di un cielo non più minaccioso.
Ma se è vero che il film racconta senza in definitiva narrare, cioè senza costruire alcun intreccio, questo racconto che si deposita nelle immagini riguarda qualcosa di più radicale di cose e uomini, riguarda gli elementi stessi che compongono la materia: terra, fuoco, acqua, aria.
E fin dal seppellimento iniziale, dove l’infrarosso del corpo è progressivamente assorbito dalla terra che sopra gli viene gettata. Terra di cui sentiamo la presenza e la consistenza durante tutto il film, negli ambienti desertici e negli sterrati dove si muovono uomini e cose. E poi c’è il fuoco, che torna più volte, nell’altoforno dell’acciaieria nel quale si getta l’amico di Sergeij, in seguito ad un rimprovero che subisce dal responsabile della fabbrica, destinata comunque a chiudere per la crisi economica, dove i due amici si trovano temporaneamente a lavorare di ritorno dalla guerra.
Ma è soprattutto in una scena, restituita in tutta la sua durata, tanto più sorprendente in quanto gratuita, che il fuoco nasce e si incontra con l’acqua. Siamo all’aperto, in mezzo ad una zona pietrosa, Sergeij getta con una pompa dell’acqua in una grande vasca abbandonata, sotto la quale accende un fuoco. Si spoglierà e si farà un bagno caldo. E a dominare nel film saranno proprio l’acqua e l’umido (ancora Tarkovskij), e non solo la pioggia, ma anche l’acqua mista a terra, l’acquitrino, il fangoso.
L’aria e il cielo emergono invece solo nei momenti più luminosi, dopo che Sergeij e Katya hanno fatto l’amore, o nel finale quando, nella piccola casa di lui si dicono di accettarsi per quello che sono, nel disagio e nel disadattamento in cui si misura la loro incapacità di tornare ad una “vita normale”. Questa accettazione è la precondizione per la felicità. Escono sul terrazzo del palazzo, con sullo sfondo la fabbrica. Ma ora c’è il cielo, e uno stormo di uccelli volteggianti che li attornia. E l’immagine ad infrarossi che vediamo nel finale dei due che bevono una tazza di tè, questa volta non si convertirà in terra (come avevamo visto all’inizio), ma si farà più leggera ed aerea.
Il cinema con Atlantis diventa un’operazione emozionante di scultura di “blocchi spazio-temporali” (per dirla con Deleuze), che si depositano e ci restano.
L’immagine prende volume, plasma la materia. E restituisce anche temi scottanti: dalla guerra al lavoro – nell’acciaieria che sta per chiudere vediamo su un grande schermo, in una sorta di set orwelliano con gli operai riuniti a discutere, immagini de La sesta parte del mondo di Vertov – all’ecologia, perché le fonti d’acqua della zona sono tutte contaminate e la desertificazione può essere ancora più radicale e irreversibile.
In breve, davanti ad un film come Atlantis sentiamo nuovamente con grande forza che il cinema ritrova sempre il suo senso più proprio quando le immagini diventano rilievi del mondo e della materia di cui è composto, e ne sanno restituire il respiro, che significa una cosa sola: saper modellare lo spazio-tempo. Quando il cinema fa questo diventa sorprendente ed emozionante e rivela come una cartina di tornasole la conclamata stanchezza di molte operazioni che necessitano di star, plot pirotecnici, tecnologia sofisticata, per provare vanamente ad autolegittimarsi.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2010.
M. Grande, Immagine e racconto, in Id., Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003.
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, Ist. Internazionale Tarkovskij, Firenze 2015.