Il Melodramma non ha trovato sul suo cammino quella resistenza di cui si parlava più sopra:
tutto ha travolto, e tutto ha invaso.
Trattato sul melodramma
Non c’è dubbio che sia più che opportuna la recente riedizione di L’immaginazione melodrammatica di Peter Brooks, ad opera de Il Saggiatore – che aggiunge un’approfondita e puntuale introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini e, tuttavia, rinuncia all’utile prefazione dell’autore alla 2° edizione americana del 1995.
Se infatti mettiamo fra parentesi la versione parziale del 2004 (curata da Francesca Orabona e priva dei capitoli su Honoré de Balzac e Henry James), di questo saggio seminale per gli studi dedicati al modo melodrammatico, non solo di area letteraria e teatrale, era rimasta in circolazione soltanto la prima edizione italiana del 1985 (da cui Il Saggiatore riprende la traduzione di Daniela Fink), reperibile sul mercato dell’usato e nelle biblioteche. Non è da escludere, soprattutto, che questo ritorno si riveli un’occasione per discutere e valutare, nei contesti adeguati, la tenuta teorica del saggio alla prova del tempo (l’originale è del 1976), per rileggerlo anche alla luce del lungo e articolato dibattito pluridisciplinare sulle proliferazioni e diffrazioni intermediali dell’immaginazione melodrammatica.
Agli inizi degli anni settanta, quando uscirono i primi contributi di Brooks (1972, 1974) – che poi, modificati, divennero capitoli del volume del ’76 – nonché il fondamentale saggio, per parte filmologica, di Thomas Elsaesser (1972), era già stata avviata, a partire dal decennio precedente, la rivalutazione critica del melodramma (inteso come mélodrame e non, all’italiana, nel senso di opera lirica, la quale, tuttavia, nella stagione post-rossiniana si è nutrita di svariati elementi del primo). Studiosi come Eric Bentley, Michael Booth, Robert B. Heilman, James L. Rosenberg e James L. Smith lo avevano infatti strappato all’automatismo di un giudizio che fino ad allora era stato quasi esclusivamente negativo, assumendolo, invece, come oggetto degno d’essere indagato. Ma è negli anni settanta, comunque, che si assiste a un’autentica svolta negli studi dedicati al melodramma.
Il saggio non è una ricostruzione organica della storia del genere (Brooks 2023, p. 19) – a questa ci penserà Jean-Marie Thomasseau – ma usa i riferimenti storici ritenuti necessari a supportare un’analisi strutturale e tematica in grado di cogliere la specificità del melodramma. Al tempo stesso, pur non essendo uno degli scopi dichiarati, riesce a dare conto in una certa misura dei processi di contaminazione fra teatro e romanzo.
Il tipo di eclettismo metodologico messo in campo è difficilmente classificabile, sebbene si avverta una specie di ruolo guida della psicoanalisi, che sarà qualche anno più tardi l’asse portante dell’altro testo chiave dello studioso: Trame (1984). L’itinerario di ricerca, di cui il saggio è l’esito, originariamente non prendeva affatto le mosse dall’intento di esaminare lo scenario storico-estetico dei mélodrames primo-ottocenteschi, bensì dall’interesse per le architetture narrative, i codici espressivi e i sistemi di significazione delle produzioni romanzesche di Balzac e James. È stato il riconoscimento, da parte di Brooks, di diverse assonanze melodrammatiche nei due autori che lo ha indotto a qualificare con accuratezza il senso di questo aggettivo – che aveva una certa presa, ma restava ancora troppo generico – facendo luce sul referente del sostantivo: melodramma (mélodrame).
Con questa espansione e riconfigurazione del repertorio d’indagine, egli non solo ha rischiarato aspetti genealogici e morfologici di un genere teatrale storicamente situato, guadagnando al contempo un posizionamento più fertile nei confronti dei registri melodrammatici del romanzo ottocentesco, ma ha dato conto della portata e della centralità stesse della categoria melodrammatica nel diciannovesimo secolo: punta di diamante di quel dispositivo teatrale che pervade la cultura dell’epoca.
Quanto alla lettura attraverso le nozioni di modo e immaginazione (come già nel contributo del ’72, invero, in simultanea con Elsaesser), si può dire che ha dato un impulso decisivo ad approcci euristici capaci di intercettare i contagi del melodramma su larga scala – basti pensare alle altrettanto decisive analisi femministe nei film studies degli anni ottanta – senza negare al contempo il fatto che si sia esposta, nel corso dei decenni, anche a usi astrattizzanti o piuttosto disinvolti.
Da un punto di vista genealogico, gli spettacoli pantomimici, il drame bourgeois, il sentimental novel e il romanzo gotico sono solo alcuni dei bacini estetici da cui provengono elementi che saranno propri del mélodrame. Di esso si scorgono esemplari larvali nell’ultimo decennio del Settecento, ma le sue forme compiute, come il paradigmatico Coelina ou l’Enfant du mystère (1800) di Pixerécourt, s’incontrano allo scoccare del secolo successivo.
In questa fase, il termine mélodrame – precedentemente usato da Rousseau per designare la sua scène lyrique Pygmalion (1770), uno dei primi esempi di melologo – si salda a un genere di massa, accompagnato da musica, che si connota per l’estetica iperbolica e survoltata, il forte impatto emotivo e sensorio, la messa in scena di contrapposizioni morali tanto radicali quanto elementari, la carica visiva delle articolate scenografie, figurazioni simboliche ed espressionismo gestuale.
Il contesto della Rivoluzione francese e degli anni appena successivi rappresenta il momento decisivo per il costituirsi del genere, non solo in termini materiali (ad esempio, la libertà artistica ottenuta dagli spettacoli popolari dopo l’abolizione del monopolio dei teatri ufficiali). Rivolgimenti storici, politici e culturali, con la condizione epistemologica da essi implicata, hanno inciso, secondo Brooks, sulla funzione stessa dell’immaginazione melodrammatica, che qui si vuole come un orizzonte estetico di negoziazione delle istanze etiche e spirituali, così come delle ansie, proprie di un’era secolarizzata e legate a un mito sacro dissacrato (ivi, p. 42 e passim). A questa perdita del sacro, descritta a più riprese con un tono un po’ apocalittico, supplisce la sensibile valorizzazione della sfera individuale, del dramma etico, ma anche psicologico-emotivo del singolo.
Deflagrato nel romanzo ottocentesco, il modo melodrammatico risulta ben evidente – al di là di Balzac e James – nelle opere di Sue, Hugo, Dumas, Dickens e Dostoevskij. E se nell’alveo del naturalismo Flaubert incarna l’antitesi a esso, Zola, invece, gli concede di quando in quando dei varchi in cui infiltrarsi. Nel caso di Balzac, la cui visione sovraccarica si combina al dettaglio crudo e realistico, Brooks parla di uno scrittore che, servendosi delle tecniche del melodramma, «aggredisce la superficie del reale […] per costringerla a esprimere» la magnitudine e il disegno del conflitto etico in atto (ivi, p. 26). È una sovradeterminazione semiotica ciò che caratterizza il romanzo dell’autore francese: la sovrabbondanza di segni e gli effetti accentuati del livello di rappresentazione fanno emergere un fondo latente (delle situazioni, dei personaggi) colmo di significati, una cartografia occulta – etica e psichica – delle dinamiche in cui si svolge il dramma. Un processo che Brooks illustra con acume e abili affondi sui testi, pur tendendo a presentare in modo troppo stabile il sistema di segni melodrammatici, i quali sono anche soggetti a capovolgimenti.
Per quel che riguarda James, a partire da The Portrait of a Lady (1881) il melodramma è concepito come il mezzo prediletto per inscenare un’avventura della coscienza, un sofferto cammino verso la consapevolezza etica. È come se la suspense, il senso di pericolo, i rovesciamenti e il conflitto del melodramma d’azione si trasferissero nella sfera interiore, agitata da dilemmi etici esasperati e dagli annessi marosi emotivi: i veri faits étonnants, insomma, sono quelli che hanno luogo in questa dimensione. Il correlativo esteriore, dimostra con efficacia Brooks, di questo melodramma coscienzialistico è reso da James conferendo a gesti, espressioni e azioni, anche le più irrilevanti, un alone capace di echeggiare sommovimenti e tensioni dell’interiorità.
Non è questa la sede per entrare dettagliatamente nel merito di una serie di aspetti del celebre lavoro brooksiano che meritano attenzione critica, ma non sarà inutile farne almeno qualche cenno. Ad esempio, pur dislocato e trasfigurato via psicoanalisi nell’esperienza del singolo, il mito sacro residuale e secolarizzato – a cui fa capo la cosiddetta morale occulta – è indicato da Brooks in sostanza come la raison d’être antropologica del melodramma (ivi, p. 43); posizione rilanciata con fervore nel capitolo conclusivo del volume (ivi, p. 286).
La filosofia della storia che supporta questa prospettiva impone presupposti che non aderiscono pienamente alle ragioni dei testi. Con questo, beninteso, non ci riferiamo affatto all’indiscutibile struttura a due strati melodrammatica (quello latente e quello manifesto), bensì all’ispirazione e alla prefissata traiettoria della morale occulta. Difatti, tra le accuratissime e illuminanti disamine dei romanzi e la spiegazione generale subentra non di rado uno iato; tanto che, se isolate, le prime riescono ad apparire più eloquenti e ariose ai fini di lettura del congegno melodrammatico. E tuttavia non è così contro-intuitivo sostenere che i punti problematici risultano assai vitali. Ci danno utili indizi per avvicinarci all’impensato di quelle domande da cui è partito Brooks e pensare aggiornamenti ermeneutici.
Riferimenti bibliografici
P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995.
T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama, “Monogram”, n. 4.
H. James, Tre saggi su Balzac, Il melangolo, Genova 1988.
E. Sala, Il valzer delle camelie. Echi di Parigi nella Traviata, EDT, Torino 2008.
Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Il Saggiatore, Milano 2023.