Sebbene sia stato coinvolto in diversi progetti di revisionismo mediaarcheologico, in tempi recenti la mia attenzione si è rivolta alle origini del cinema dalla prospettiva dell’“energia”. Ciò che segue è un primo tentativo di delineare un abbozzo di tale approccio: stavolta rivolgendomi ad un oggetto cinematografico che per me illustra alcune di queste tensioni tra movimento e percezione, personificazione e propulsione in un modo emblematico e profondamente conflittuale.
L’oggetto è emblematico, in quanto ci porta dal pre-cinema al cinema delle origini, attraverso il cinema classico, il cinema post-classico e il cinema post-televisivo, di internet o degli spazi espositivi. L’oggetto è conflittuale e paradossale, perché evidenzia il fatto che, nel mio tentativo di sviluppare un modello energetico del cinema, ho fatto ricorso a teorie dell’energia obsolete o quanto meno incomplete, anzitutto quelle concernenti le manifestazioni meccaniche dell’energia. L’oggetto mi riporta in mente l’idea di Hollis Frampton secondo cui il «Cinema è l’Ultima Macchina. È probabilmente l’ultima arte che raggiungerà la mente attraverso i sensi» (Frampton 1983, p. 113), cosa che lo distingue dal video: una forma di produzione delle immagini che invoca più direttamente le correnti elettriche e i campi che mantengono in efficienza i nostri dispositivi di uso quotidiano, che ci forniscono luce e che azionano i circuiti elettronici, i quali ora computano e processano parte del movimento delle nostre menti, dei nostri corpi e dei nostri sensi.
[…] Per chiarire la relazione tra movimento come energia, e energia come informazione, Gilles Deleuze ha introdotto la distinzione tra immagine-movimento e immagine-tempo. Il nostro modello di energia e il nostro oggetto suggeriscono che questa opposizione potrebbe dover essere ripensata, in quanto ciascuna implica l’altra e dipende dall’altra, come i due lati di uno stesso fenomeno, che è il cinema.
[…] Parte della mia argomentazione riguardante l’oggetto che sto per presentare è che esso può agire come una metafora pervasiva del cinema in tutte le sue fasi, vecchie e nuove, on-screen e off-screen. Con ciò esso – al di là della sua presenza fisica spesso spettacolare nella narrazione – possiede una potente funzione autoreferenziale per il rispettivo medium in cui fa la sua comparsa, mentre la sua meta-riflessività è accresciuta dalla stessa patina di obsolescenza. Per estensione, la sua mancanza apparente di funzionalità pratica lo rende libero di abitare uno spazio del “qui-ed-ora” e dell’“altrove”, del desiderio e della possibilità, che fa rivivere associazioni di piaceri infantili, di innocenza in gioco – e le corrispondenti emozioni di nostalgia, rimpianto e perdita.
[…] Questo oggetto proto-para-pre-post-cinematografico di cui voglio parlare – lo avete intuito dal titolo – è il carosello, la cui connessione all’energia è resa emblematica dai cavalli di legno che fanno corvetta intorno alla sua traiettoria circolare. E parlando di cavalli, non c’è bisogno di ricordare che alle origini del cinema – nella forma della cronofotografia – troviamo un cavallo: la scommessa di Leland Stanford, vinta per lui da Eadweard Muybridge e i suoi esperimenti di locomozione animale.
Perfino la mia presentazione vuole costituire un esperimento, un’incursione nel genere del video-saggio, o remix accademico o mash-up. La pretesa delle mie clip di YouTube è quella di sostenere che il carosello, come oggetto cinematografico, si può trovare in un numero sorprendentemente alto di film, dagli inizi del cinema ad oggi. Un’indagine superficiale e di certo non esaustiva ha individuato circa 160 titoli dal 1898 al 2008, dai quali ho tratto la mia selezione.
Come già suggerito, in molti dei casi che sono riuscito a visionare, il carosello ha un più o meno esplicito status metacinematografico. Le sue riflessività e auto-riflessività spesso eccedono ogni particolare funzione e motivazione narrative. Da un punto di vista storico, inoltre, il carosello è un oggetto cinematografico che non solo ci dice qualcosa sul cinema delle origini, sul cinema classico, post-classico e artistico. Esso si estende ai diversi media che hanno, per così dire, “ospitato” il cinema nella sua storia centenaria: la fiera, la sala cinematografica, la televisione, le gallerie e Internet.
[…] Animare e animato, muovere e mosso, auto-motivazione e motivato, il carosello drammatizza la mutua implicazione e le determinazioni inverse di moto e movimento. Essendo agente e palcoscenico per l’azione, il carosello indessicalmente “si riferisce a” e implica il “cavallo vapore” che fa funzionare il suo movimento-meccanismo, dal momento che prima del motore a vapore e del motore elettrico, erano il cavallo o il mulo a girare in tondo, idonei a muovere i mulini o ad attingere acqua da un pozzo che alimentava un carosello. Per il cinema, tuttavia, la parte più suggestiva del “cavallo vapore” è il galoppo in avanti, la caccia e il combattimento, addomesticato e sfruttato attraverso il carosello, che piega il suo corso in un circolo.
Se il carosello può così facilmente funzionare da emblema del cinema, è perché la tensione tra linearità e circolarità – e la modalità di conversione dell’una nell’altra – è centrale anche nel sistema cinematografico, con il nastro che si sbobina da una ruota e viene poi raccolto da un’altra ruota. Allo stesso modo, il modo in cui gli ingranaggi e le manovelle del carosello traslano l’energia di un motore centrale al moto alternante degli animali che si spostano intorno al palo ci ricorda l’intricato meccanismo del proiettore, con la croce maltese acentrica, e le varie morse dentate che trasportano la striscia di pellicola con pignoni a foro.
La più conosciuta e forse anche la più spettacolare apparizione di carosello nella storia del cinema condensa tutti questi motivi in un finale esilarante e al tempo stesso terrificante. Mi riferisco alla scena verso la fine del film di Alfred Hitchcock Delitto per delitto (1951). Qui vediamo pienamente rappresentati non solo le gioie ma anche gli aspetti più spaventosi del carosello, come le forze oscure e le energie selvagge di questi cavalli addomesticati vengano scatenate, mentre Hitchcock meticolosamente si concentra sulle diverse forme di trasmissione dell’energia, gli ingranaggi e le leve, le cinghie di trasmissione e i pistoni. Come si vede, il villain Bruno diventa egli stesso uno di questi cavalli selvaggi, ma anche un pistone umano, poiché si regge con una mano allo zoccolo del cavallo, e meccanicamente e ritmicamente prende a calci con il suo piede la mano di Guy, quando quest’ultimo si aggrappa al palo, fino a che l’intero carosello non si blocca bruscamente, scaraventando i cavalli di legno nella folla urlante.
[…] Nel film Mary Poppins (Stevenson, 1964), la governante e il suo amico Bert, insieme ai bambini a cui lei deve badare, attraverso un disegno di gesso su una strada di Londra fuggono alla fiera, dove i cavalli del carosello decidono di prendersi una pausa dal loro girare in tondo: prima seguono una caccia alla volpe, e poi si ritrovano su una pista, nel bel mezzo di una gara ippica in stile Ascot. Nonostante P.L. Travers, l’autrice dei libri di Mary Poppins “detestasse” l’idea che l’animazione Disney venisse imposta alle sue creazioni (vedi a riguardo Saving Mr Banks, Hancock 2013), gli animatori della Disney trovarono un modo meraviglioso di combinare le creature disegnate con i cavalli di legno del carosello, in una piccola allegoria paracinematografica sugli effetti liberatori dell’animazione sull’immaginazione. Liberi di unirsi alla caccia alla volpe e poi di competere sull’ultimo tratto di un ippodromo, i cavallucci di legno vincono per Mary Poppins e per Disney: oltre il carosello e la sua apparente antitesi, l’ippodromo, la scena rivendica la combinazione di animazione e attori in carne e ossa, e perciò pone il cavallo del carosello come epitome dell’idea di Disney di un cinema ibrido come tipo di cinema più puro.
[…] L’idea delle diapositive è lo spunto per il mio ultimo esempio di scena con carosello, stavolta tratta dalla televisione, e tuttavia centrata su molte delle questioni affrontate finora, soprattutto per ciò che concerne l’ingegnoso abbinamento tra associazioni di trauma, obsolescenza, nostalgia, infanzia e utopia. Mi riferisco al famoso episodio della prima serie di Mad Men (Weiner, 2007), in cui Don Draper, direttore creativo della Sterling Cooper Draper Pryce, presenta con il proiettore di diapositive Kodak Carousel il discorso promozionale per il Kodak Carousel: quando le diapositive del suo bambino appena nato e della famiglia a Natale appaiono sullo schermo, Draper espone ai suoi colleghi e ai “clienti” della Kodak la necessità di allegare al prodotto emozione e narrazione; e tra queste emozioni, «nessuna è delicata e potente quanto la nostalgia». Questo è il motivo per cui il proiettore di diapositive viene definito: «non un’astronave, ma una macchina del tempo». «Esso è in grado di andare avanti e indietro, e di portarci dove noi desideriamo ardentemente andare. Non viene chiamato “La ruota”», continua «Viene chiamato “Il Carosello”. Esso ci permette di viaggiare girando in tondo e poi di tornare di nuovo a casa».
Così per concludere senza concludere e “tornare di nuovo a casa”: la persistenza del carosello nel cinema, questa la mia conclusione provvisoria, non solo mette in luce le molte forme – diegetica, metaforica, allegorica – che le manifestazioni di questa energia meccanica possono portare nella modalità riflessiva dell’oggetto cinematografico come “auto-movente mosso”, ma inoltre esemplifica le diverse sincronizzazioni di obsolescenza e anticipazione che hanno ossessionato l’essere proprio del cinema fin dalle sue incerte origini. Se la sua storia resta ancora in sospeso tra “Quella del cinema è un’invenzione senza futuro” di Antoine Lumiere e “Il cinema non è ancora stato inventato” di André Bazin, allora il carosello nei film, come oggetto para-, proto- e meta-cinematografico per eccellenza, si riferisce invariabilmente a molti tipi di macchine, corpi e immagini in movimento, scambiando energia e calore, agitazione e locomozione, mentre punta alla idea – e forse a un ideale – di cinema, che alla fine può – e forse addirittura dovrebbe – esistere solo a livello mentale.
Riferimenti bibliografici
H. Frampton, For a Metahistory of Film: Commonplace, Notes and Hypotheses, in Id., Circles of Confusion. Film Photography Video Texts 1968-1980, Visual Studies Workshop Press, Rochester 1983.