Il primo, il più lucido, a notare come il caso Moro sia stato anche – e non secondariamente – un evento mediatico è stato senza dubbio Leonardo Sciascia. Già nel 1978 con L’affaire Moro, scritto a pochi mesi dal sequestro e dall’assassinio, rendeva infatti esplicita l’esigenza di un approccio per così dire “intermediale” per abbordare una trama fatta di lettere del prigioniero, comunicati delle BR, falsi documenti, intercettazioni, dichiarazioni politiche, servizi giornalistici, etc.. Rileggendolo oggi, L’affaire Moro non può non apparire come un libro di montaggio, dove lo stesso Sciascia si descrive come un navigatore e bricoleur che tenta di destreggiarsi in mezzo a forme mediali eterogenee, indagando i loro scopi espliciti e impliciti: «Sto scrivendo queste pagine sull’affaire Moro in un mareggiare di ritagli di giornali e col dizionario del Tommaseo solido in mezzo come un frangiflutti».
Se Sciascia è stato il più sollecito, Marco Bellocchio è senza dubbio il più ossessivo. Per lui, il caso Moro costituisce un riferimento obbligato e, come è stato sostenuto, continuo, inconscio. Eppure il confronto diretto con il caso Moro segna un punto di svolta, un’occasione di liberazione di nuove potenzialità espressive nell’arte del maestro piacentino e del cinema tout court. Buongiorno, notte (2003) non è soltanto un film di successo, ma anche un’opera capace di marcare una soglia e spingere avanti con forza una nuova stagione del cinema italiano, basata su un nuovo equilibrio tra la messa in scena finzionale e l’archivio mediatico. Con il film del 2003, Bellocchio inaugura quella che potremmo definire la fase compiutamente intermediale della sua carriera, sebbene tracce di tale approccio siano rinvenibili in tutto il suo cinema, fin dagli anni sessanta. Da Buongiorno, notte a Vincere (2009), da Bella addormentata (2012) a Il traditore (2019), raccontare la storia significa anche e soprattutto fare i conti con l’archivio d’immagini mediatiche che pretendono di “documentarla” ma che, se non vengono spazzolate contropelo, finiscono per tacere, in una strana omertà. Bellocchio è il regista che più di ogni altro, quantomeno in Italia, ha saputo riaccendere – forse ancora non abbiamo preso sufficientemente sul serio questo gesto – lo stanco dibattito sui rapporti tra cinema e storia, riconcependolo nei termini di un rapporto tra storiografia e archeologia dei media e della cultura visuale.
In una conferenza del 2007, poi pubblicata in Lo sguardo e l’evento, Marco Dinoi assegnava a Buongiorno, notte un ruolo paradigmatico per iniziare a riflettere sui rapporti tra la finzione e i materiali d’archivio, ovvero sulla capacità del cinema di accogliere al proprio interno discorsi e immagini eterogenee, offrendone una rielaborazione critica. Attraverso l’analisi di quel film, parlando di “inserti”, “prelievi” e “innesti”, Dinoi articolava dunque una tipologia empirica delle tracce del passato storico che un film può utilizzare.
Con prelievo, precisava, si intende «l’oggetto tale e quale si presenta nella realtà extratestuale, e come tale presuntivamente riconoscibile dallo spettatore, installato nel film a partire da questa sua autonomia evenemenziale: può essere per esempio la trasmissione televisiva di cui si fa mostra in un passaggio del discorso filmico (in Buongiorno, notte il telegiornale che annuncia il sequestro Moro)». L’inserto è invece il frutto di una maggiore contaminazione tra il documento mediatico e lo spazio scenico finzionale: «Appartiene a eventi o esistenti direttamente riconducibili alla storia ufficiale, cronologica, ma a differenza del prelievo è direttamente manipolabile dal testo filmico: in questo caso, per esempio, la trasmissione televisiva è mostrata con le stesse modalità con cui viene prodotta dall’apparato mediatico al di qua del film, ma presenta al suo interno uno dei personaggi della finzione filmica». L’innesto è dunque la più trasversale e complessa tra le operazioni in questione, nella misura in cui coincide con tutte «le ricostruzioni sceniche frutto di evidenti ricerche iconografiche più o meno accurate», con tutti i momenti in cui il film di finzione riattiva al livello drammaturgico e scenografico la memoria mediatica dell’evento storico.
Se il montaggio di Buongiorno, notte si basa soprattutto sulla presenza di prelievi televisivi – dai telegiornali alle trasmissioni commerciali – funzionali a descrivere il radicamento ideologico dei brigatisti come deriva dell’immaginario (provate a riguardare la sequenza in cui la protagonista riceve la notizia dell’avvenuto sequestro, dove immagini palesemente mediatiche e percezioni sensibili si rendono indistinguibili) e il rigor mortis di un corpo politico in decomposizione (la celebre sequenza finale con Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd), diventa dunque interessante aprire uno spazio di riflessione sulle forme di utilizzo dell’archivio mediatico all’interno del nuovo film di Bellocchio: Esterno notte, nuovamente dedicato al caso Moro. Certo, un’operazione analitica di questo tipo richiede la possibilità di vedere più volte il film. Ad oggi, non è neppure possibile reperire fotogrammi che possano costituire un supporto visivo a tale riflessione analitica. Ma è intanto possibile azzardare alcune ipotesi.
A uno sguardo d’insieme, Esterno notte fa un utilizzo parco, o comunque non paragonabile agli ultimi film di Bellocchio, di “prelievi” dagli archivi storici e mediatici, limitandone l’uso a situazioni specifiche: le lettere di Moro e i comunicati dei brigatisti, considerati nella loro testualità, le immagini di alcune manifestazioni politiche e sindacali, una sequenza di Il mucchio selvaggio (1969) alla quale assiste il brigatista Valerio Morucci (Gabriel Montesi) in un cinema, i servizi televisivi dedicati puntualmente alla cronaca delle settimane di rapimento (su tutte, la farsa del Lago Duchessa). Al contrario di Buongiorno, notte, a prevalere sul prelievo sembra essere l’“inserto”. Tale scelta può essere giustificata prima di tutto in relazione alle contingenze produttive e distributive di Esterno notte, alle quali si è fatto più volte ricorso come chiave interpretativa dell’interno progetto, al confine tra cinema e serialità. Quella dell’inserto può essere infatti concepita come la più “televisiva” (il riferimento è alle strategie narrative della fiction televisiva) tra le modalità di ripresa dell’archivio: quella forma di interazione tra la messa in scena finzionale e il documento storico capace di nobilitare e legittimare la prima attraverso la simulazione del secondo. Per fare un esempio, nei diversi episodi del progetto di Bellocchio, assistiamo sì al telegiornale dell’epoca, ma all’interno dello stesso troviamo al posto del volto di Aldo Moro quello di Fabrizio Gifuni che lo interpreta. La diegetizzazione della storia ha in questo modo la meglio sulla possibilità di prelevare, montare e tornare a osservare – da una prospettiva inevitabilmente postuma – i frammenti d’archivio provenienti da quello stesso passato. Gli esempi in tal senso potrebbero essere molti e si tratta di tornare a vedere da vicino il film per identificarle e considerarne la funzione specifica.
L’“innesto” – la capacità della messa in scena finzionale di riattivare la memoria iconografica e sociale – si diffonde e diluisce invece lungo le cinque ore di durata complessiva. Essa coincide prima di tutto con le diverse temperature del racconto, con la qualità delle scenografie e dei punti di vista (si pensi al covo delle BR, alla prigione di Moro, alla Renault 4 rossa e via Caetani), con le tonalità specifiche mediante le quali si offre un ritratto di personaggi politici e storici di primissimo piano, la cui esposizione pubblica nel corso della seconda metà del Novecento non può non riattivarsi criticamente – il contropelo – durante la visione del film. Innesto è prima di tutto l’interpretazione di Fabrizio Gifuni (la sua umanizzazione del personaggio di Moro, la sua andatura articolata, l’articolazione armonica della sua voce) e quella di Margherita Buy (l’esigenza di sviluppare a tutto tondo la figura di Eleonora Moro, a partire da minori referenze mediatiche). Viene poi una serie di ritratti che si iscrivono nella tradizione grottesca del cinema italiano: un Paolo VI (Toni Servillo) affaticato e impotente, la cui autorità e influenza sono commissariate dalla politica; un Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) psicodrammatico, imprigionato nella trama di potere e controllo che lui stesso ha contribuito a tessere; un Giulio Andreotti (Fabrizio Contri) vampiro – uno dei ritratti più mostruosi nella storia del cinema – dotato di muta razionalità e di una psicologia gastrica. Si tratta di una serie di rappresentazioni del potere mirate tanto a descrivere i singoli protagonisti quanto a sintetizzare il conflitto tra la “ragione umanitaria” (Moro lettore di Jacques Maritain) e la “ragione di stato” come chiave di lettura dell’intero affaire. Ma il deliberato sacrificio di Moro è anche un’occasione per continuare a riflettere sui rapporti tra teologia e politica, un tema trasversale a tutto il cinema di Bellocchio e ben presente nei film degli ultimi decenni.
Ma la vera originalità nell’utilizzo dell’archivio all’interno di Esterno notte coincide con le possibilità offerte dalla lunga durata e dalla strutturazione in capitoli. La narrazione sembra procedere in modo lineare ed è supportata da una serie di cartelli che datano i fatti. In realtà, tutto torna due volte o almeno due volte: la prima volta che qualcosa appare in scena lo vediamo come documento mediatico (inserto o prelievo) e la seconda come messa in scena finzionale, o viceversa. La dilatazione della durata e il formato seriale rendono in questo modo possibile l’esplorazione della temporalità e spazialità di un trauma privato e pubblico, in ogni caso politico. Contro la tendenza a spazializzare la storia che ha caratterizzato molto cinema italiano – si pensi a La meglio gioventù, erroneamente convocato come un possibile modello di Esterno notte –, Bellocchio crea una temporalità molteplice (la sfera della cronaca e quella della religione cristiana, la storia e la rivoluzione, la legge e la vita) e una spazialità frattale (nella quale, più di ogni altro, sprofonda il personaggio di Cossiga).
Esplicitamente sulla questione dell’archivio e la sua ripresa, in Esterno notte ancor di più che in Buongiorno, notte vale e lavora una precisazione fatta da Dinoi: che inserti, prelievi e innesti «non si chiudono su funzioni esclusive […]: la singola occorrenza può rispondere a necessità diverse, ma può anche essere proteiforme, cambiare il suo aspetto, o presentarsi ibrida già in partenza». Le tecnologie mediatiche e i materiali d’archivio partecipano di tale processo, dandosi una prima volta secondo una delle tre modalità che compongono la tipologia per poi essere rielaborati ed esposti nuovamente – magari decine di minuti dopo – secondo un’altra, e così via (mi pare questo il caso delle due sequenze dedicate ai funerali dei membri della scorta di Aldo Moro, ma è senz’altro necessario tornare a guardare con maggiore attenzione tali brani del film). La tessitura intermediale del film – mai troppo esplicita eppure sempre presente – costituisce in altre parole il connettore spaziale e temporale, ciò che circola attraverso le varie serie narrative contribuendo alla loro differenziazione ideologica e strategica: politica, brigatisti, famiglia.
Inserti, prelievi e innesti reloaded: sono passati quindici anni da Buongiorno, notte eppure il fuoco della ricerca artistica di Bellocchio sembra ancora agitarsi attorno a quei termini, attorno a quelle operazioni e alla loro capacità di farci riflettere sul rapporto problematico tra gli eventi e le forme della loro mediatizzazione. Da Moro a Moro, se il cinema può continuare a raccontare la storia contemporanea è anche grazie alla sua capacità di articolare criticamente – film dopo film – un’archeologia dei media e della cultura visuale.
Riferimenti bibliografici
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
Esterno notte. Regia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; scenografia: Andrea Castorina; costumi: Daria Calvelli; interpreti: Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi; produzione: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia; durata: 300′; anno: 2022.