La liberazione di Aldo Moro non c’è stata per assenza di libertà in tutto il Paese. Non solo nei terroristi, ma nell’intera classe dirigente, con poche eccezioni. E la libertà definisce la condizione prima per l’attuazione di una vera democrazia, in quanto invenzione di individui e comunità e del loro comune futuro. Lo spazio della libertà, della sua assenza, è stato occupato, come sempre nella storia politica e sociale del nostro Paese, dalla paura. La paura dei terroristi di non essere all’altezza del loro compito rivoluzionario e della “guerra” in corso, la paura di una classe politica di restare per sempre fuori dal potere per mancanza di “fermezza” o per ciò che sarebbe potuto accadere alla liberazione di Moro. E la paura non può che condurre alle scelte peggiori, cioè all’idea che non esista altra scelta. E dunque che si debba rispondere ad una necessità inesorabile che non lascia libertà alcuna. Una libertà che di fatto l’Italia non ha mai posseduto, schiacciata sotto il peso di uno scetticismo profondo (effetto di dominazioni secolari), che ha segnato la sua storia. Scetticismo che per ben nascondersi ha assunto spesso la maschera di incandescenti rivoluzionarie esaltazioni, come emerge in un dialogo chiave tra i terroristi in Esterno notte, quando la Faranda accusa Morucci di non averci mai creduto nella rivoluzione, e di aver sempre voluto esclusivamente “morire da eroe”. E l’accusa di averla di fatto spinta ad abortire e ad abbandonare la figlia, fingendo di credere in qualcosa in cui non credeva.

Marco Bellocchio con Esterno Notte si appropria con un gesto di grande coraggio e con una notevole libertà ideativa ed espressiva (assente dai personaggi) di un intero decennio e lo riscatta dal suo carattere plumbeo. Prima la passeggiata di Moro in Buongiorno, notte e ora la sua liberazione da parte delle Brigate Rosse non travisano la storia, ma la liberano dalla sua inesorabile chiusura. Liberano immaginativamente il passato e con ciò stesso lo fanno passare. Il passato conta solo per il presente, e a partire dal presente. E in tale presente Bellocchio trova il coraggio di immaginare ciò che non è stato fatto, ciò che non è accaduto. Traccia una linea abortita che non è stata tracciata. Perché il passato non è solo l’insieme dei cosiddetti fatti, ma l’insieme di sentimenti, desideri, interessi, aspettative, frustrazioni, paure, private e pubbliche, che lo hanno segnato. È di quelli che Bellocchio si fa carico, sciogliendo il trauma del rapimento e della morte; usando la grazia della libertà, che accompagna lo splendore della maturità dell’artista, per restituircela a noi spettatori. Che ci sentiamo non solo liberati, ma anche più liberi.

E non ci si venga a dire che il cinema non conta per questo. Rossellini nel 1945 con Roma città aperta – come ci ha detto il Godard delle Histoire(s) du cinéma – ha avviato il riscatto dell’Italia dalla guerra e dal suo passato fascista. La grande guerra di Monicelli, nel 1959, a diversi decenni di distanza dalla fine della Prima guerra mondiale, ha contribuito a sciogliere i nodi e a superarne il trauma. Insomma, se i fatti non sono solo fatti, ma anche l’insieme di sentimenti, desideri, paure, «associazioni, evocazioni, fantasie narrative» (Dewey 1998, p. 30) che li accompagnano, allora l’arte ha un peso decisivo nel liberare dalla cosiddetta necessità della storia. Che è di fatto la forma in cui l’azione viene sottratta alla sua libertà, e dunque alla sua umanità. Così come le interpretazioni che delle azioni vengono date, che non tollerano margini di dubbio. Solo certezze sul fatto che non si potesse pensare e fare altrimenti.

Ma qual è l’intorno che accompagna tali fatti? Qui Bellocchio è straordinariamente sottile nel riconsegnarci l’umanità dei personaggi attraverso le loro paure e le loro nevrosi. Vediamo Moro che si porta, per poter dormire, il nipote nel lettone, poi quello ossessionato dalla pulizia delle mani e dal controllo della chiusura del gas. E abbiamo Cossiga sofferente perché la moglie lo ignora, che non smette di osservarsi macchie invisibili sulle mani e di ascoltare con le cuffie le tante registrazioni di telefonate che vengono effettuate. E la Faranda, omicida, che si imbarazza a farsi vedere dalla figlia a letto con il suo uomo.

Ed inoltre abbiamo l’innesto di tutte queste paure e nevrosi individuali in una ritualità scaramantica generale, che amplifica fino agli estremi del ridicolo le iniziative di un Paese sospeso tra veggenti, sedute spiritiche, suore visionarie, fioretti (i gelati che Andreotti smette di mangiare). E che mostra una disarmante inadeguatezza rispetto al dramma in atto, come nel caso del consulente americano dall’efficientismo un po’ ridicolo con cui dialoga Cossiga. Ed ogni soluzione immaginata, dettata dalla cosiddetta “prudenza” come “virtù cardinale”, si annoda al problema in un nodo gordiano il cui taglio prende la forma paradossale dell’immobilità e della paralisi. Immobilità ammantata di rassicuranti illusorie parole, come quelle rivolte ad Eleonora Moro, l’unico personaggio del film che mostra realismo e grande dignità; o anche di improbabili trattative come quella avviata dal Vaticano, arenatasi con venti miliardi di lire sul tavolo di fronte ad un Papa, che non ha esitato lui stesso a chiedere ai terroristi di liberare Moro “senza condizioni”.

E il “pazzo” con cui opinione pubblica e politici liquidano Moro prigioniero è il tentativo di fare del leader isolato il capro espiatorio di colpe diffuse. La “pazzia” di chi vuol difendere la sua vita (come nel finale dice il leader democristiano) di fronte alla presunta “sanità” di chi con “fermezza” persegue il crimine sia reale che simbolico di far morire il leader mantenendosi sotto la protezione ideale della Rivoluzione e dello Stato. E se la prima è ontologicamente destinata a fallire per l’accelerazione violenta del tempo che pretende di inscrivere nella vita sociale, il secondo a cui spetterebbe anche il compito di garantire l’apertura del tempo futuro si chiude cinicamente su un presente senza prospettive, se non quelle di lasciare al potere chi già lo detiene, ritardando di almeno un ventennio la crescita del Paese.

E il grottesco che a tratti Bellocchio usa, per contaminare un tragico senza catarsi, serve a ribaltare il punto di vista e a sposare quello di Moro: i “pazzi” sono quella galleria di maschere del potere che stanno fuori, che occupano la scena pubblica, e a cui Moro e la famiglia sottrarranno il feretro per i funerali di Stato. L’isolamento a cui è condannato il recluso, nel finale viene rivendicato: il potere celebrerà una cerimonia senza il corpo del leader. Ma gli anni settanta non sono una meteora, una decade sfortunatamente nefasta, bensì affondano nel passato storico di una nazione. Diventano il decennio in cui tale passato, precipitato sotto l’evidenziatore di una liberazione senza libertà, prende l’aspetto di un presente grottesco e da incubo (che tutto il film ci riconsegna, tramite messa in scena, recitazione, montaggio e colonna sonora). C’è una sequenza molto indicativa su questo: in un autobus, mentre due ragazzi si fanno una pera, una signora fa riferimento ai bei tempi andati del fascismo, e una volta giunti a Porta Pia, vediamo il monumento al bersagliere che ricorda il Risorgimento e la Presa di Roma.

C’è dunque una linea continua che segna tutta la nostra modernità dall’Ottocento in poi, dove la cosiddetta “anomalia italiana” non è nient’altro che la produzione di un reale puramente fantasmatico, in cui la prassi invece di essere la forma condivisa di apertura del futuro, diventa il punto incandescente in cui precipitano i deliri scettici di una utopia rivoluzionaria, o il cinismo di una politica senza alcun respiro. In entrambi i casi il tempo non si apre, la durata si eclissa, il futuro sfuma. Tutta la prassi italiana, tutta la vita sociale e politica italiana è caratterizzata da un tale continuo scetticismo che si fa glaciale furore o bieco opportunismo (così come ce li raccontava già Leopardi nel Discorso sullo stato presente del costume degl’Italiani). In entrambi i casi è il dominio del fantasma, di cui Moro rimane l’esempio più chiaro e fulgido.

La società di massa ha preso in Italia le forme di una democrazia incompiuta, passata dal totalitarismo fascista alla divisione tra la DC, il grande partito popolare che ha segnato la storia italiana del secondo Novecento, e il PCI, il più grande partito comunista d’Occidente al servizio del popolo. Partiti in cui l’educazione si è fatta indottrinamento e disciplina (chiesa, comunque), mancando sempre quell’educazione alla libertà, che è l’unica vera condizione per l’apertura di un futuro democratico. L’unico capace di ribaltare lo scetticismo in fiducia.

Di tutto questo gli anni settanta sono un precipitato, e il sequestro e l’uccisione di Moro un punto di non ritorno. Il film di Bellocchio – come i grandi capolavori del nostro cinema – è stato capace di cogliere come sentimenti, credenze, superstizioni, nevrosi, luoghi comuni, slogan, silenzi, violenze, atti mancati, relazioni private e pubbliche, di tutta un’epoca, componessero una sorta di piano ontologico della storia e della società italiana. Senza alcun fuori, senza scarti. Senza veri dualismi, in una confusione totale tra reale ed immaginario, verso e falso, sognato e percepito, stasi ed azione. L’unico “fuori” è quello che occupano Bellocchio stesso e il suo cinema, e che ci viene restituito come un grande luogo di libertà. Spazio che solo l’arte in Italia è capace di occupare ed inventare, in attesa di una educazione alla libertà ancora tutta da venire.

Riferimenti bibliografici
J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma 1998.
G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano 2015.

Esterno notte – Parte II. Regia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Claudio Misantoni, Francesca Calvelli; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; costumi: Daria Calvelli; interpreti: Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi; produzione: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia; durata: 170′; anno: 2022.

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