Il traditore è il personaggio
essenziale del romanzo, l’eroe.
Gilles Deleuze
Il tradimento è una sottrazione al potere incombente delle affiliazioni che modellano e ingabbiano le nostre vite. Il tradimento non si oppone alla fedeltà, ma ai dispositivi di potere che di quella fedeltà priva di scelta fanno il cardine del loro funzionamento. E che portano il soggetto fedele a tradire se stesso e la propria vita. L’affiliazione a Cosa Nostra comincia da troppo piccoli per poter scegliere nulla, e sottrarvisi non può che significare tradire. È quello che Tommaso Buscetta, il traditore, il primo grande pentito di mafia, dice al magistrato Giovanni Falcone nel loro primo incontro. Quando ha deciso di parlare, Don Masino era stato estradato dal Brasile dove si era “rifatto una vita” con la sua bella moglie brasiliana e i figli da lei avuti. Lui era un semplice soldato, non un graduato nella piramide mafiosa. E non lo era non perché non avesse le qualità adeguate al comando, ma perché non voleva, preferiva le donne. E in questa preferenza, oltre alla gratificazione della sua vanità, c’era anche una spinta verso la vita, che accompagna sempre il traditore.
Questo emerge chiaramente nei confronti tra Buscetta e gli altri mafiosi durante il Maxiprocesso. I confronti sono restituiti secondo un potente dispositivo teatrale, per la disposizione della scena e dei personaggi (collocati non frontalmente ma in parallelo), per il ribaltamento continuo tra scena e spettatori (i mafiosi in gabbia), per la restituzione del personaggio come maschera (anche con toni grotteschi). Sequenze che cancellano per potenza immaginativa ogni scena processuale di film americano. Qui in gioco non è il dibattimento orientato alla scoperta di una verità che sappiamo, in gioco qui ci sono delle posizioni che riguardano il teatro della vita e del potere, e che contrappongono impostori e traditori (per dirla con Deleuze).
I primi, gli impostori, si subordinano al potere, corrispondendo ai suoi ordini criminali, come emerge nel primo confronto con Pippo Calò, che, passato con i Corleonesi, arriva ad uccidere perfino i bambini delle famiglie rivali. I secondi, i traditori, a quel potere voltano la faccia, sia pur per interesse e in nome di “antichi valori” (scudo illusorio che serve ad occupare una posizione in scena). I primi di quel potere costituiscono il vertice e lo esercitano nel modo più spietato, come rivela il secondo confronto con Totò Riina. E rivendicano perfino una priorità morale sui secondi, perché hanno evitato vite dissolute e immorali. Hanno preferito “comandare” piuttosto che “fottere”, trasformando il comando nel gesto criminale e spietato di assegnare una morte diffusa a chi a quel comando fedelmente non corrisponde. Mentre i traditori hanno preferito amare le donne, “giocare” e “divertirsi”.
Il traditore esiste perché ci sono gli impostori. E la vita prende sempre la forma di una necessaria impostura. Per questo il tradimento è l’unica strada possibile, di fuga, di erranza, di anonimato, di clandestinità, quando l’impostura è criminale, quando il potere è solo quello di assegnare la morte. Quando la vita non sembra concedere altra strada se non l’affiliazione mafiosa.
La straordinaria scena iniziale di ballo per la festa di Santa Rosalia (dove risuonano autori come Coppola e Cimino e che giù di lì arriva a Il gattopardo), sia pur negli spazi angusti di una casa in riva al mare dove si festeggia il momento di unità di una comunità criminale, apre il film su un movimento epico, subito minato dalla “tragedia del padre”, con lo sbandamento del figlio drogato, Benedetto Buscetta, sulla spiaggia. Ballo, messa in scena, foto di gruppo, giochi pirici, alleanze mafiose, determinano un’“armonia criminale” che però dura poco.
La fuga e la nuova vita in Brasile di Don Masino, l’abbandono dei figli avuti dai precedenti matrimoni, aprono nel film un secondo movimento tragico-melodrammatico (sottolineato da motivi d’opera verdiani), quello delle uccisioni a Palermo, del loro conteggio. Il tutto in un montaggio alternato con Rio de Janeiro, dove vive Buscetta, il cui punto di vista dall’alto (dalla casa) apre ad un paesaggio intenso, segnato dal conflitto drammatico tra la montagna e il mare, tra la verticalità della prima e l’orizzontalità del secondo. Conflitto che culmina in una sequenza tanto memorabile quanto inaspettata, quella che vede Buscetta e la moglie sospesi sull’oceano, su due elicotteri della polizia brasiliana, nel tentativo di estorcere al traditore una qualche confessione (evocazione dei morti in mare delle dittature sudamericane). Questo secondo movimento tragico trova il suo apice nel “teatro di maschere” del processo, ed apre ad un terzo movimento, romanzesco, che identifica il cuore del film. Un movimento che però non arriva semplicemente dopo, ma attraversa gli altri due, li complica e li problematizza.
Il traditore, ogni traditore, è un uomo in fuga, votato alla clandestinità. E al fondo è un uomo solo. Per gli altri è un infame. Ha rotto i patti con la sua comunità d’appartenenza, ma non può entrare nella sua comunità d’accoglienza, di protezione: non vi appartiene, non la sente sua. Lui rimane un uomo d’onore. In definitiva il “boss dei due mondi” è un boss tra due mondi, ma non appartiene a nessuno. Non è più un criminale, ma non è neanche un pentito (“Non mi considero un pentito”), un redento. È qui che si misura come la figura del traditore apre sempre alla forma-romanzo (oltre l’epos dell’inizio e la tragedia della seconda parte). Cioè al racconto del viaggio di una vita senza più affiliazioni, cercando uno spazio di esistenza sempre più difficile, talvolta impossibile, da trovare. Come quando tenta il suicidio prima della sua estradizione. Lo fa per proteggere, sacrificandosi, la sua famiglia o per intralciare il suo ritorno in Italia?
Ed ecco che il viaggio di una vita è sì viaggio nel tempo, ritorno al passato, rimemorato, sognato, raccontato, composto di frammenti; ma è anche viaggio nello spazio, in una geografia che il film marca e identifica con tratti distintivi chiari. Il traditore deve percorrere una linea di fuga geografica, che per lui sarebbe addirittura più radicale: andare in Amazzonia, scomparire (“Vuoi diventare eremita?”, come gli viene detto all’inizio). Ma questa fuga riguarderà di fatto una Rio de Janeiro imponente, e poi gli Stati Uniti, il New Hampshire, il Colorado e la Florida, e gli ambienti anonimi che li contrassegnano: non solo case, ma anche supermarket, autorivendite, ristoranti. La vita anche solo nei suoi aspetti ordinari sembra dividersi tra quel “non-luogo” che è l’America e una Italia mitizzata, o al massimo ridotta ad una geografia di prigioni.
Dove sono la mafia, la droga, il crimine in tutto questo? Solo un elenco rapido e numerato di omicidi commessi. E dov’è lo Stato? Solo figure anodine, come i giudici del processo o in fondo anche la figura di Falcone, che scompare dietro alle maschere dei mafiosi. Perché in gioco nel mafioso, nella sua prossimità alla morte, c’è la dicotomia fondativa tra un modo di esistenza inscritto nel potere e nelle sue imposture e uno che vi si sottrae, tradendo quelle parole d’ordine. Sono questi modi di esistenza che definiscono la distanza tra chi non ha altra possibilità di scelta che uccidere e continuare a farlo con lo sprezzo massimo della vita altrui e propria, e chi a quel meccanismo vuole sottrarsi, per provare, nei modi possibili, ad incontrare la vita.
Il tradimento è l’atto che iscrive nel soggetto la possibilità di una fuga dall’ordine dell’esistente, quale esso sia; l’atto con cui un soggetto prova ad intercettare la vita, che la mera fedeltà allo stato di cose escluderebbe. Tradire significa mettere la propria vita su una linea di fuga, la cui destinazione è imprevedibile, cioè in definitiva farne un romanzo. Certo Buscetta è un mafioso, non pentito, porta dentro di sé sempre l’idea dell’approdo nostalgico alla terra, alla Sicilia. Flette sempre la fuga romanzesca nel ripiegamento melodrammatico verso le origini. L’Amazzonia verso cui sarebbe voluto andare ritorna sempre ad essere la Sicilia da cui non riesce a staccarsi.
E quando negli Stati Uniti entra in un ristorante con la famiglia, durante le feste di Natale, e un suonatore ambulante avvia il “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare sono… un siciliano”, Buscetta sente di voler tornare, l’attrazione del cliché (o un sintomo paranoico) è troppo forte per un uomo che ha avuto sì il coraggio di tradire, ma non ha la forza né le qualità per percorrere fino in fondo la sua linea di fuga. E si compra perfino un fucile per difendersi, non si sa bene da chi. La reinvenzione di una vita ritorna sempre al dolore per la morte dei figli, al senso di colpa per non averli saputi proteggere. Ed è al fondo il tratto di un dolore “materno”: protezione della vita per la vita, senza alcuna trasmissione simbolica. Nulla da insegnare, assenza di valori, se non un generico ed equivoco “onore”.
Anche in questo, il traditore Buscetta è il personaggio di un romanzo non compiuto. È la figura esemplare del romanzo di una vita. Pronta per una fuga che si riduce sempre ad un ritorno, aperta ad una vita che sembra sempre trasformarsi in una trappola. Non diversa dalle vite di tutti. In questo c’è la presenza di una “umanità comune” nel traditore, quella che lo rende prossimo allo spettatore, sintetizzata anche dal riconoscimento di una comune condizione umana segnata dalla morte. “Si muore sempre per qualcosa. Si muore e basta” è la frase che gli dice Falcone, e che Buscetta riprende nel finale, poco prima di morire.
Come nei grandi esempi letterari e cinematografici, e in linea di continuità con tutto il cinema di Bellocchio (e non solo Buongiorno, notte), il tema del potere è la via d’accesso per misurare e riflettere sulla condizione umana. Contaminando registri e toni (comico-grottesco e tragico-melodrammatico), inserendo anche immagini di repertorio, il film attraversa tutto il materiale espressivo declinandolo in un senso propriamente romanzesco, con una forza inventiva ed una originale e spiazzante libertà creativa che non ha eguali, sia nel cinema italiano contemporaneo, sia in un panorama internazionale (dove mafia, camorra, criminalità organizzata vengono raccontate in ben altre prevedibili forme), sia per il cinema di Bellocchio stesso.
Ma resta ancora una domanda: nel racconto del destino di un traditore dove e come rientra l’Italia? Il tratto esemplare di un destino umano che solo tradendo riesce a sottrarsi all’impostura criminale in che senso è esemplare per la storia del nostro Paese? Nei cinque minuti più belli dedicati al cinema italiano, quelli che gli dedica Godard nelle Histoire(s) du cinéma, viene istituito il nesso tra tradimento e rinascita dell’Italia e del nostro cinema nel secondo dopoguerra: «L’Italia è il Paese che ha lottato di meno, che ha sofferto molto, ma che ha tradito due volte, e che dunque ha sofferto l’assenza di identità. E se l’ha ritrovata con Roma città aperta, questo è perché il film fu fatto da uomini senza uniforme». L’Italia stessa tradendo è stata capace di rinascere. Sottraendosi all’impostura fascista ha saputo aprire uno spazio di libertà.
Il tradimento è la precondizione per un nuovo inizio. Ma la rinascita non è garantita, né per un soggetto né per un Paese. Può essere parziale, incompiuta, prevedere pericolosi ritorni all’indietro, assunzioni di maschere, precipitazioni melodrammatiche. Si può cioè interrompere la linea di fuga intorno a cui un soggetto, così come un “popolo senza uniforme”, possono costruire il loro romanzo. E talvolta la linea di fuga può trasformarsi essa stessa in una linea di morte.
Una nazione come un soggetto possono appartenere a diversi “generi”. Gli Stati Uniti fondati da soggetti in fuga, di cui la grande letteratura porta traccia indelebile, al cinema si sono raccontati nelle forme più prevedibili dell’epos (Nascita di una nazione). L’Italia, che nella letteratura ha inseguito una identità ideale, nel cinema ha saputo disfarsi di tutto questo, percorrendo, nell’assenza totale di racconto epico, le strade più innovative ed imprevedibili di un romanzesco, che anche se ripiegato talvolta nel melodrammatico e a volte nel grottesco, ha saputo raccontare meglio di altre forme generiche come un soggetto, e una nazione, vanno reinventati sempre.
E reinventare significa anche tradire (esemplare qui anche il finale di Buongiorno, notte). E se è in un certo senso inevitabile abitare l’impostura, connaturata alla vita sociale, la forza è nello smascherarla e il coraggio nel tradirla. E forse il destino comune, come ci racconta Il traditore, è nel riconoscere che sia lo smascheramento sia il tradimento rimangono sempre atti incompiuti.
Il traditore dice tutto questo nel modo più forte. E fin dal titolo fa del nome proprio un personaggio da romanzo, come in Buongiorno, notte il nome proprio si trasfigurava in un verso poetico. La cronaca e la storia diventano condizioni e luoghi per una riflessione sulla condizione umana e sulle scelte che guidano i modi di esistere. Per tutto questo (e per molto altro) Il traditore non è solo uno straordinario film per pensare il nostro presente e il nostro passato, ma anche un’opera capitale nella storia del cinema italiano.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, Ombre Corte, Verona 2019.