Forse mai come nella vicenda di Aldo Moro è parsa appropriata l’idea pasoliniana che la morte compia un fulmineo montaggio dell’esistenza. Solo attraverso quella fine tragica e prematura, il Presidente DC è potuto diventare la figura condivisa da tutti i fronti politici e intoccabile per eccellenza, il più importante martire della Repubblica italiana. E intoccabile deve essere inteso tanto letteralmente – non può cioè essere toccato, ma semplicemente contemplato – quanto nel senso che la sua vicenda è diventata immodificabile, proprio perché tale è stata la potenza configurativa della sua morte che niente della sua vita può più essere riscritto. Esterno notte, l’ultimo lavoro di Marco Bellocchio, che si propone a buon diritto come l’opera audiovisiva più monumentale sinora realizzata attorno alle ultime settimane dello statista pugliese, inizia invece con Moro in un letto di ospedale, barba lunga e sguardo cupo, malconcio ma sopravvissuto al processo brigatista.
Presentata nella sezione Cannes Première, Esterno notte è una serie in sei episodi o alternativamente un lunghissimo film di quasi sei ore diviso in due parti, pensato tanto per la circolazione primaverile in sala quanto per la programmazione televisiva autunnale, che si inserisce inevitabilmente, seppur in termini altamente complessi e anche contraddittori, nel filone delle fiction Rai sugli eroi civili della Repubblica. Una produzione particolarmente ambiziosa, alla pari del precedente Il traditore, che poggia su professionalità di altissimo livello per sceneggiatura (la squadra di 1992), montaggio (Francesca Calvelli), consulenze storiche (Giovanni Bianconi e Miguel Gotor), e ovviamente recitazione, con in prima fila Fabrizio Gifuni, Toni Servillo, Margherita Buy e Fausto Russo Alesi nei panni rispettivamente di Moro, Paolo VI, Eleonora Chiavarelli (la “dolcissima Noretta”) e Francesco Cossiga.
In tale cornice produttiva, un inizio del genere risulta ancor più spiazzante, perché tale deliberata falsificazione sembra in qualche modo prendere le distanze dall’intento pedagogico che, da Rossellini in poi, le finzioni storico-biografiche hanno scopertamente perseguito. Ma in effetti, da Bellocchio non avremmo potuto aspettarci nulla di diverso: il regista piacentino aveva già fatto sopravvivere Moro in una delle scene più famose del cinema italiano del nuovo millennio, quella passeggiata nelle vie di Roma sotto una leggera pioggerellina nel finale di Buongiorno, notte. Porre la sorpresa della sopravvivenza subito all’inizio, e non al termine del racconto come nel 2003, è ovviamente parte integrante della concezione di questa serie antologica come controcanto del film.
Una serie della quale, è bene ricordare, al momento sono disponibili solo i primi tre episodi (salvo per pochi fortunati spettatori), ciascuno con un diverso focalizzatore, nell’ordine Moro, Cossiga e Paolo VI: pertanto, ogni tentativo di inquadramento complessivo non può che essere fallimentare. Tuttavia, questo incipit contiene anche una evidente volontà terminativa e solleva da subito il problema di riconfigurare le coordinate di senso che diamo alla vicenda storica, proprio perché quelle a noi familiari sono improvvisamente venute a mancare. Soffermarsi su questo nucleo iniziale non è dunque tanto dettato da una generica prudenza critica, ma è piuttosto espressione della necessità di indagare a fondo la cornice, intesa propriamente come luogo al confine dell’opera, perché raramente una cornice ha mostrato un’apertura di senso così straordinaria. Se la sua funzione è separare lo spazio dell’opera da quello che opera non è, e dunque garantirne le reciproche dinamiche di comunicazione, la ricchezza semantica di tale cornice è allora evidentemente diretta conseguenza della ricchezza di questi due spazi: di quanto lo spettatore può trovare dentro questa serie, e dell’immaginario legato a questa vicenda e sedimentatosi nella cultura italiana.
Il primo riferimento è il film del 2003, e in questo caso il cambio di prospettiva emerge con nettezza, a dispetto delle apparenze. La sequenza utopica di Buongiorno, notte era infatti ancora sotto il segno della «liberazione allucinatoria» (Montani 2010, p. 29), con un Moro sorridente che sembra quasi intenzionato a scomparire come Ettore Majorana, mentre le immagini d’archivio mostravano la classe politica del tempo che si ritrovava smarrita ai suoi funerali. L’incipit di Esterno notte traccia invece una direzione diametralmente opposta: Moro è vivo e la dirigenza della DC è riunita attorno al suo letto, mentre la sua voce fuori campo dichiara di dimettersi dalla vita politica e di rescindere i legami con la comunità democristiana. Moro qui non scompare – non disegna cioè una traiettoria parallela e alternativa nella quale «la realtà deve eclissarsi nella probabilità», mettendo in questione lo statuto stesso del reale (Agamben 2016, p. 52) e rendendo in qualche modo legittimi infiniti percorsi dell’immaginazione, anche i più avventurosi, sulla sua sorte futura – ma rimane ancorato allo spazio del reale circoscritto dall’opera stessa.
A differenza di Buongiorno, notte, dove i documenti audiovisivi venivano integrati quasi filologicamente nel mondo della finzione per poi essere lasciati liberi di comporre una nuova costellazione intermediale, i primi minuti di Esterno notte riscrivono la storia sino a spingersi alla falsificazione o all’invenzione dei documenti. Si pensi ad esempio alla voce fuori campo appena menzionata, che informa della decisione di rinunciare alla vita politica quasi citando parole prese dalle lettere scritte durante la prigionia (un espediente che ricorre tra gli altri in Il divo di Paolo Sorrentino, dove a Moro è affidato il ruolo di commentatore delle vicende andreottiane), oppure i finti Super8 delle proteste studentesche, in realtà girati per l’occasione in digitale e modificati in postproduzione. Ma niente, in questi primi episodi, ha il tratto “allucinatorio” che si trova nel film e che fa di Moro un fantasma che attraversa buona parte della cultura visuale nazionale; piuttosto, si resta sempre dentro una cornice di plausibilità e di profonda aderenza al dato storiografico, anche nei momenti di maggiore visionarietà, specialmente nel secondo episodio con protagonista Cossiga. E allora, questa apertura al falso, è doppiamente rilevante dentro questa prospettiva di cornice, perché richiama deliberatamente un immaginario solo per negarlo radicalmente.
Il secondo riferimento è dunque il nucleo fotografico che ha contribuito fortemente a costruire l’immagine pubblica di Moro, a identificarne dei tratti di esclusiva pertinenza e a determinare la sua longevità nella memoria collettiva come nessun altro personaggio della Prima Repubblica. Potremmo dividere questo corpus in tre categorie principali: Moro al mare in giacca e cravatta (dove a prevalere è la dimensione politica del corpo dello statista, che rimane tale anche lontano dalle sedi istituzionali), la stretta di mano con Berlinguer (a prevalere qui è la dimensione storica di quel corpo, che testimonia il farsi dell’evento), gli scatti dalla prigione del popolo (che raccontano della dimensione vitale del corpo, che appunto può avere valore di scambio solo se ancora vivo). Bellocchio ha dichiarato che è proprio una di queste foto, quella nel quale Moro posa sorridente con dei bagnanti in costume, ad aver costituito il punto di partenza del progetto.
Eppure, la prima immagine di Moro nella serie, degente in ospedale, contraddice risolutamente questa riconoscibilità iconografica. Si tratta di un corpo disteso, in pigiama, con la barba lunga e cannule e sondini attaccati: un’immagine che non richiama nessuno dei tratti pertinenti che hanno configurato l’aspetto di Moro, contrariamente a quanto accade invece in tutti gli altri episodi, nei quali l’interpretazione di Gifuni risulta straordinariamente aderente al modello originale (del resto l’attore ha una lunga frequentazione transmediale con il personaggio). Moro non ha più né dimensione politica dato che si è dimesso da ogni carica, né storica visto che non solo siamo nel pieno della finzione ma si tratta di un momento rubato dai tre colleghi di partito (Andreotti, Cossiga, Zaccagnini) venuti a trovarlo, né tantomeno vitale, dato che quel corpo è sopravvissuto ma ha cambiato forma di vita, ritraendosi nel privato e diventando in qualche modo pura carne.
Il terzo riferimento è a un ordine inter- e transmediale che da un lato ha definito l’immaginario attorno al “caso Moro” e dall’altro sta definendo le coordinate culturali del presente, con il quale Esterno notte intrattiene un consapevole rapporto di natura autoriflessiva. È già stato rilevato che nel primo episodio ci siano almeno due espliciti riferimenti a oggetti che hanno contribuito alla ridefinizione dei rapporti tra cinema e televisione in Italia, la notizia radiofonica delle riprese di Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi e il passaggio televisivo di Le avventure di Pinocchio (1974) di Luigi Comencini con il quale Moro inizia una sua lezione all’università. Tuttavia, si può espandere ulteriormente questa metariflessione operata da Bellocchio, che tra l’altro dissemina tracce lungo tutto il percorso narrativo (proprio all’inizio, la lunga inquadratura con la locandina di Anima persa di Dino Risi, dall’evidente portato metaforico metaforico).
Nel caso della notizia su Rosi, trasmessa alla radio in una delle primissime scene che vedono Moro protagonista, l’accento è posto infatti sulla partecipazione di Gian Maria Volontè come protagonista. Nella lunga galleria di attori che si sono succeduti nel prestare corpo a Moro, Volontè è stato il primo con Todo modo (1976) di Elio Petri, quando l’esponente DC era ancora in vita, e probabilmente anche il secondo con Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, prima opera integralmente dedicata al sequestro. La distanza tra le due interpretazioni è nota: da impacciato, insicuro e impotente mediatore che si scopre infine burattinaio dell’ordalia “dei gerarchi DC”, secondo i termini pasoliniani, nel film di Petri a corpo sacrificale della nazione vittima di una macchinazione che trascende i confini ideologici e nazionali nel film di Ferrara.
Se questa distanza non è che l’ulteriore prova della morte come operatore di senso di cui si faceva cenno all’inizio, il riferimento esplicito testimonia in filigrana anche dell’autoassegnato compito di costruzione di un discorso definitivo sulle vicende del sequestro, attraverso un’opera che trova nella lunga durata seriale la sua necessaria ragion d’essere per articolare e far coesistere diversi punti di vista sull’evento. Nella prima metà ora in sala, sembra che sia Cossiga la figura che fa da portavoce delle istanze più complesse e attuali attorno ai quali il cinema di Bellocchio si è concentrato in questi ultimi vent’anni. In particolare, è il rapporto tra vita e rappresentazione che sembra stare a cuore all’allora Ministro dell’Interno: dal sarcasmo con cui liquida l’affermazione di Mario Moretti «chi è Moro è presto detto» – sottintendendo la difficoltà di mettere a fuoco la “verità” di un’esistenza individuale – alla dolente constatazione che «la mia vita non è un romanzo», sino al malcelato entusiasmo con cui ascolta le intercettazioni, commentando «mi interessa la vita minima degli italiani». Non sono forse questi i cardini principali attorno ai quali ruotano gli ultimi film del regista, almeno da L’ora di religione (2002) in avanti?
Se Esterno notte è un’impresa certamente corale, affiorano ampiamente i segni distintivi dello stile-Bellocchio, già dalle prime due inquadrature in ospedale, un raccordo in asse su una suora che cammina nervosamente avanti e indietro nella cornice di un lungo corridoio. Così come emergono anche temi decisivi della sua poetica, spesso filtrati dall’ironia, come la presenza dello stesso Miguel Gotor nel ruolo di Presidente della corte nel processo al nucleo storico brigatista. Il giudice e lo storico: una doppia allusione a Piero Calamandrei e a Carlo Ginzburg, all’interesse per le vite minime – l’historia inferior – dentro le grandi sovrastrutture storiche, alla ricerca della ricostruzione del passato smascherando le falsificazioni. E alla funzione del cinema, certo, o almeno quello bellocchiano.
Bellocchio non si limita però a dare una visione personale della storia e della storiografia, ma anche della sua lunga e profonda stratificazione finzionale, e lo fa in due modi principali: allargando la cornice temporale della vicenda del sequestro – includendo così anche la settimana precedente e dunque soffermandosi per quasi tutto il primo episodio su un Moro molto poco rappresentato – e decentrando il fuoco prospettico – mostrando pertanto il controcampo politico e privato di quel vuoto simbolico durante i 55 giorni di prigionia. E questa è solo una piccola parte della prima metà della cornice.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.
P. Montani, L’immaginazione intermediale, Laterza, Roma-Bari 2010.
Esterno notte. Regia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; scenografia: Andrea Castorina; costumi: Daria Calvelli; interpreti: Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi; produzione: The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia; durata: 300′; anno: 2022.