Lo vediamo seduto alla scrivania intento a sfogliare un libro di sue foto, Mimmo Jodice, uno dei più geniali fotografi contemporanei. Le mani quasi accarezzano quelle pagine dove le sue immagini sono riprodotte, si sono depositate, succedendosi nel tempo. Quello stesso tempo secolare che si è stratificato nei gangli di un quartiere antichissimo come la Sanità a Napoli, dove Jodice è nato e cresciuto da ragazzo, e che vediamo dall’alto in una lenta panoramica, mentre scorrono le foto di scorci, di chiese, di bambini, in quel rione che Jodice ha colto in un bianconero che risulta quasi materico. Così l’apertura di questo ritratto in movimento, che Martone ha costruito in modo limpido e certosino penetrando nel processo creativo di Jodice, annuncia già ciò che dal documentario emergerà, tassello dopo tassello: la fotografia è un lavoro del e sul tempo, e in cui la luce incide l’immagine, rivelandone il mistero in essa sospeso.
Jodice conosce e custodisce nel suo lavoro tale mistero, in cui risiedono i poteri dell’immagine: «Poteri della sua fissità, cioè della sua morbosa sostanzialità, sempre spettrale, in quanto immagine mentale, ossessionante, fantasmatica» (Didi-Huberman 2023, p. 11). Si tratta della “formazione” di uno sguardo, quello di Jodice, che avviene in sintonia con le latebre del tempo, ciò che l’antropologo Marino Niola nel film definisce “estuario del tempo”, entro cui si forma un immaginario fotografico segnato dal sovrapporsi delle epoche, dalle immersioni ed emersioni di segni che appartengono a un retaggio atavico di Napoli. Il cuore ancora pulsante della Sanità viene ripercorso dalla camera che giustappone le riprese a colori del dedalo dei suoi vicoli, le sue atmosfere che sopravvivono ancora oggi, agli scatti in bianconero di Jodice, che ne hanno quasi “scolpito” in immagini, lungo la luce del tempo, l’humus segreto.
Da subito la moglie di Jodice, Angela (per lui essenziale complice e vestale), ricorda come per il fotografo, che avrebbe voluto diventare pittore, la scoperta della fotografia abbia assunto fin dall’inizio la potenza di una “rivelazione”, la vocazione per un’arte: un action photographing piuttosto che un action painting. I suoi primi lavori li realizza direttamente in camera oscura facendo a meno dell’apparecchio fotografico, impressionando le lastre con fili di lana, pezzetti di carta, foglie: tutti objet trouvé, così come un pittore opererebbe su una tela. L’arrivo in casa di un piccolo ingranditore, per Jodice costituì allora lo stimolo a sperimentare e a fornirgli la conferma che la fotografia avesse in sé il diritto ad essere considerata un linguaggio artistico. Certo questi primi esperimenti che puntualmente Martone ci mostra riportano alla mente il lavoro di artisti dell’avanguardia storica che hanno usato la fotografia come autonoma lingua dell’arte: Man Ray, Marcel Duchamp, László Moholy-Nagy, Anton Giulio Bragaglia. Nel ricostruire il percorso di Jodice, Martone convoca, piuttosto che critici o storici della fotografia, le persone che sono entrate in sintonia con il suo lavoro, in empatia con le sue cifre peculiari. Cifre che emergono nel film con chiarezza e relazioni profonde: quella antropologica, quella più propriamente artistica, quella connessa al suo organizzare in cicli espositivi il suo lavoro, quella legata alla sua sensibilità per lo spazio e la “trasfigurazione” dei territori urbani, quella più strettamente riferita alla sua perizia fotografica, e infine quella privata e in certo modo plasmante la sua sensibilità.
Il versante antropologico del fotografare di Jodice, anzitutto, viene da Martone affidato all’acuto argomentare di un antropologo che al sostrato mitico e alle radici ancestrali napoletane ha dedicato numerosi studi, Marino Niola. Mentre scorrono immagini di ragazzini napoletani colti da Jodice frontalmente, oppure obliquamente riflessi da specchi, o ambiguamente velati, in posture e sguardi che racchiudono gli echi di un retaggio antico, Niola ci fa notare come quei corpi siano assimilabili in qualche modo alla ritrattistica o alla statuaria classica (e non è un caso se la stessa enigmatica “aura” ricorrerà poi in una successiva fase del lavoro di Jodice, quella che ci restituisce le pieghe, i giochi di luce, le mutilazioni, le erosioni dei marmi, delle statue e dei volti della scultura grecoromana).
In tal senso insiste nelle immagini di Jodice un retaggio pagano, insieme a un'”interrogazione” del classico che si riflette nel contemporaneo, un residuo di quel fondo dionisiaco e misterico, così come di quella caravaggesca e barocca “oscurità luminosa”, che riecheggiano tanto nel sostrato architettonico napoletano quanto nelle feste popolari da cui emerge la reviviscenza degli antichi culti. «Dappertutto i segni di un mondo magico, di poteri nascosti nelle cose, di influssi e di influenze. Dappertutto l’incertezza dell’esistenza pericolante…» (Levi in Jodice 1972). Martone sceglie di far leggere da Andrea Renzi uno scritto di Carlo Levi a proposito dei cicli fotografici di Jodice dedicati alle feste popolari, in cui fra l’altro lo scrittore si sofferma su alcune foto che colgono il “volo” di una bambina vestita da angelo, lungo le facciate dei palazzi di agglomerati urbani frutto della speculazione edilizia. Allora quelle figure, quei corpi, quelle folle di fedeli, quei volti, quei gesti icasticamente colti nei loro atteggiamenti tanto quotidiani quanto rituali, diventano nell’occhio del fotografo come allegorie umane, metafore viventi.
Emerge nel film a poco a poco un’attitudine tipica di Jodice: il suo tendere a una dimensione metafisica, depurata dal contingente in modo da far tralucere nelle sue immagini una sorta di condensazione emblematica, una forza metaforica, e anche una sua incessante spinta alla sperimentazione. Nel film Martone è come se si “accordasse” con il racconto del percorso di Jodice in modo quasi musicale. Le sue foto entrano nel montaggio e contrappuntano le testimonianze come fossero improvvise interpunzioni di una partitura visiva. Trascorrono così le varie fasi che hanno attraversato il percorso creativo del fotografo. A cominciare da quei formidabili anni settanta/ottanta in cui Napoli si faceva crocevia dell’arte contemporanea internazionale, fucina di sperimentazione dei linguaggi artistici, grazie a galleristi come Lucio Amelio, Peppe Morra, Pasquale e Lucia Trisorio, Lia Rumma. Sono anni in cui Jodice incontra e documenta le mostre, le performances, le “azioni” di protagonisti assoluti dell’arte contemporanea, da Warhol a Kossuth, da Nitsch ad Acconci, da Rauschenberg a Merz, fino a Joseph Beuys (con cui Jodice si reca a Gibellina per un viaggio fotografico), e ne restituisce in immagine il “divenire”. Nel film Lucia e Laura Trisorio, e Angela Jodice, raccontano con emozione quel periodo avventuroso, quando gli artisti internazionali oltre alle gallerie frequentavano anche le case dei galleristi (come Villa Orlandi di Pasquale e Lucia Trisorio ad Anacapri dove hanno lasciato tracce e installazioni delle loro visite). Sono gli stessi anni in cui si avvia anche il percorso creativo di Martone e in qualche modo (per citare il titolo di una mostra di Jodice proprio alla galleria Trisorio in cui giustappone alle sue foto quelle di grandi fotografi che costituiscono per lui fonte ispirativa), si opera qui una sorta di “identificazione” nel crocevia del tempo.
In controluce (come già avveniva nel film dedicato a Troisi Laggiù qualcuno mi ama, scritto come questo insieme a Ippolita Di Majo) Martone opera una sorta di transfert affettivo nel nome di un “ritratto” non solo di un artista ma anche di un comune “romanzo di formazione”. L'”aria del tempo” viene fatta rivivere in modo naturale e non cronachistico, per cui emerge anche la fase dell’impegno come fotografo sociale di Jodice, attraverso le immagini degli ospedali psichiatrici, delle fabbriche, delle scuole, delle periferie, delle manifestazioni operaie e studentesche in cui i conflitti, i dolori, le lotte, le vite ai margini, vengono come assorbiti in una dimensione depurata che assurge a condizione umana universale, senza tuttavia perdere lo stigma politico. Così avviene anche per la costruzione delle sue immagini dedicate ai “set urbani” di Tokio, Napoli, Boston, Mosca, San Paolo, Parigi, per le esplorazioni fotografiche in Cina o in Giappone dove la luce modellata in camera oscura, la linea d’orizzonte, le campiture spaziali, le figure umane che si perdono nella vastità delle angolazioni e degli scorci architettonici, vengono tenute in sospensione, immerse in un tempo immoto, oppure in un movimento interno che tende all’astrazione (come nel film fa notare l’urbanista e architetto Stefano Boeri).
Dalle parole dello stesso Jodice a proposito di questi lavori emerge l’attitudine di uno sguardo che aggruma come in un “precipitato” alchemico (un solve et coagula) la materia visiva entro cui l’incandescenza intensa dell’immagine si congela in una visione sottratta alla contingenza del quotidiano, eppure assurge a una sorta di “immanenza” affidata all’attimo eterno di ciò che si dischiude di fronte ai nostri occhi. Nel film un fotografo come Antonio Biasucci, che ha magnificamente metabolizzato da par suo la lezione di Jodice, sottolinea tale intrinseca vocazione metaforica che reclama e suscita spazi svuotati dall’elemento umano. All’apparire nel film delle immagini di una Napoli deserta e abbacinante, come lontana, in cui resta la “scena del dolore” e su cui aleggia un insito interrogativo, non si può far a meno di pensare a certe inquadrature di Antonioni in cui è la “cosalità” svuotata di presenze a parlare con il silenzio. Eppure nelle foto delle “attese”, dei “vuoti”, di Jodice, c’è una sorta di reincantamento del mondo insito proprio nel suo disincanto, come se si levasse da quelle immagini l’evocazione dell’assenza, certo, ma insieme la meditazione assorta di una possibile redenzione, di una possibile metamorfosi. «Non c’è più il fuoco, non c’è più il sangue, non c’è più riparo ad un mondo che langue senza difese, senza esorcismi rituali, che accentrino l’esistenza a un suo asse, ai segnali di una lingua, di un canto remoto, formula magica, ripetibile incanto, crisi della presenza» (Levi in Jodice 1972), così scandiscono ancora le parole di Carlo Levi lette da Andrea Renzi.
Martone ci mostra, nel sovrapporsi e nell’apparire delle foto di Jodice, le orme dissolte di una sparizione progressiva dell’umano e, sulla scorta del commento di Marino Niola, ci scrutano le maschere pompeiane dagli occhi sbarrati riflesse negli specchi infranti (che richiamano gli strappi e le fenditure, le ferite suturate, operate da Jodice nei suoi primi esperimenti fotografici), in cui risuona (come il rombo sordo che si introduce a tratti nella tessitura sonora del film) una specie di “nostalgia dolorosa del sembiante”. Ciò avviene ad esempio nelle foto che Jodice dedica a un ambiente iniziatico come l’antro della Sibilla a Cuma, dove si riverbera l’enigma di quelle trafitture di luce che fendono il buio nello spazio oracolare. Ecco che il film di Martone si addentra nella qualità per così dire misterica del lavoro di Jodice. In questo senso la moglie Angela racconta il rapporto del fotografo con Pompei, con la materia delle pietre antiche, con quel depositarsi misterioso della vita assorbita dal tempo nella materia. In questo senso si inquadra il rapporto di Jodice con un artista come Francesco Vezzoli, lungo il filo comune dell’interesse per il frammento archeologico, per le suggestioni del passato “ferito” (come nell’ installazione cofirmata Damnatio memoriae).
Si illumina qui un altro sentimento che il lavoro di Jodice trasmette, quello di una saturnina melancholia, che ne costituisce forse la cifra filosofica di fondo, in accordo con l’allegoria benjaminiana dell’angelo della Storia, che guarda il rovinio del tempo passato, trascinato dal vento impetuoso del futuro. Allora il lavoro del tempo e della luce inerente al senso intimo del fotografare, il “tempo dell’attesa” che richiede come dei “passi rituali” sia nell’atto del fotografare, sia nel plasmare la luce e le ombre in camera oscura, viene come “incarnato” sotto i nostri occhi dai gesti silenziosi delle mani di Iodice, dal suo sguardo, dal suo “occhio in ascolto” nella lenta, meticolosa, preparazione di quell’attimo eternante che è lo scatto fotografico.
Quando la gallerista Lia Rumma racconta della foto donatale da Jodice in cui una semplice sedia vuota guarda la distesa del mare, la linea senza soluzione di continuità dell’orizzonte, il film rivela come per Jodice il rapporto tempo-movimento-spazio possa racchiudersi nella qualità leopardiana dell’infinito. Martone ce lo fa sentire in una sequenza chiave: Jodice arriva su un promontorio che dà sul mare, monta il cavalletto, lo sposta più volte, scruta l’orizzonte marino, guarda il cielo e attende, con la pazienza di un cacciatore, o con la “seconda vista” di un aruspice, l’epifania di una visione, la rivelazione dell’immagine. L’osmosi tra lo spazio e il tempo costituisce il movimento interno tanto del lavoro di Jodice quanto, di riflesso, della struttura del film che, in analogia con il processo creativo del fotografo, diventa una sorta di delicata “macchina del tempo” che risolve e scioglie in immagini filmiche il compito arduo di filmare la fotografia e insieme l’enigma dell’atto creativo. E quando Martone entra nei penetrali misterici del buio della camera oscura di Jodice, laddove i gesti delle sue mani che modellano la luce sono come segnacoli magici nell’aria, arriva a filmare un mistero alchemico: la metamorfosi della materia in forma di luce attraverso il lavoro del tempo.
Un certo versante documentario del lavoro di Mario Martone (cui è stato appena assegnato il Nastro d’Argento dell’anno per il documentario) si configura dunque coerentemente come l’ “occhio in ascolto” di un artista nei riguardi del lavoro di un altro artista (in qualche modo, sotterraneamente, a lui affratellato), che si pone, con empatica semplicità e insieme con una penetrazione di sguardo attento alle “sintonie” predisposte e suscitate dal suo modo di disporre i nessi delle immagini e delle testimonianze convocate, quasi come una “sonda” delicata e profonda dentro il mondo poetico, dentro il processo creativo e il senso sotteso a quella “vita d’artista” che le immagini ci restituiscono. In questo caso Martone ci fa entrare per rivelazioni ed epifanie nel “laboratorio” segreto di un alchimista della luce.
Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, La somiglianza informe o il gaio sapere visuale secondo Georges Bataille, Mimesis, Milano-Udine 2023.
M. Jodice con testi di R. De Simone e prefazione di C. Levi, Chi è devoto. Feste Popolari in Campania, ESI, Napoli 1974.
Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice. Regia: Mario Martone; sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita Di Majo; fotografia: Elio Di Pace; montaggio: Jacopo Quadri, Martina Ghezzi; interpreti: Mimmo Jodice, Angela Jodice, Antonio Biasiucci, Stefano Boeri, Marino Niola, Lia Rumma, Laura Trisorio, Lucia Trisorio, Francesco Vezzoli, Andrea Renzi; produzione: Mad Entertainment, Rai Documentari, Caronte S.P.A.; origine: Italia; durata: 52′; anno: 2023.