La saletta buia di montaggio è come l’antro di un mago. Il regista e il montatore riportano in vita, quasi come una evocazione dall’invisibile, i corpi, i luoghi, i gesti filmati, li fanno rivivere più e più volte, traendoli da un passato che riprende forma, ritorna presente. È con il gesto magico del montaggio che Mario Martone rende presente Massimo Troisi, gli infonde una nuova vita, ce lo fa percepire come nostro contemporaneo. Il suo Laggiù qualcuno mi ama (ri)comincia proprio in moviola. Martone con il montatore Jacopo Quadri visiona una scena di Splendor (1989) di Ettore Scola in cui Troisi (che interpreta il proiezionista di una sala cinematografica di provincia, quindi un “apprendista stregone” di quel sortilegio che è il cinema) passeggia nella notte con Marina Vlady e le chiede inopinatamente con quel suo tenero, incerto, smozzicato parlare: “Lei è svedese, non è vero?”.
La scelta di Martone è quella di condurre in prima persona il suo viaggio nella memoria riattivata e resa reviviscente non solo dei film di Troisi, non solo delle immagini della sua vita pubblica e dei suoi momenti di vissuto, ma anche di tutto ciò che risuona ancora oggi del suo mondo creativo, della singolarità di un attore-autore a tutto tondo che ha espresso una idea di cinema, oltre a scardinare dall’interno, riappropriandosene e rovesciandola, una certa tradizione commedica, una declinazione della maschera. Martone in fondo rileggendo Troisi riprende e conclude, come in un ideale trittico, il discorso che su Eduardo e su Scarpetta aveva condotto con Il sindaco del Rione Sanità (2019) e con Qui rido io (2021). Con quei film aveva mostrato come sia l’uno che l’altro si muovessero simultaneamente nel solco di una tradizione e di una innovazione inventando un nuovo modello espressivo capace di travalicare il tempo e le convenzioni.
L’irrompere dell’attorialità obliqua e schiva, della comicità lunare e divagante di Troisi apporta una novità dirompente (come fu negli stessi anni nel caso di Nanni Moretti) nei moduli consunti della commedia italiana, e di conseguenza si inscrive in uno stile cinematografico che (come per molti grandi comici, da Keaton a Chaplin) costituisce, in modo naturale, un gesto registico che aderisce alla sua prassi recitativa, amalgamandosi con essa.
In questo senso il cinema di Troisi è fatto di accensioni, di slittamenti, di deviazioni frammentarie e impreviste. Martone comprende a fondo questa singolarità e ce la mostra con grande libertà componendo un tessuto filmico fatto a sua volta di frammenti, di analogie, di squarci, con l’intento di restituirci una forma di vita. “Il cinema di Troisi si esprimeva per frammenti, per soprassalti improvvisi, alternava pieni e vuoti, ora era acceso, ora era stanco. Il cinema di Troisi era bello, perché aveva la forma della vita”. Questa frase di Martone fornisce da subito non soltanto uno sguardo sulla poetica di Troisi come autore, oltre che come attore, ma anche la cifra di un film che ricompone sotto i nostri occhi il sentimento interno di una vita d’artista, il gesto stilistico, il tono, il colore, il tratteggio di un’arte che, nel caso di Troisi, coincide con tutto il suo corpo, inteso non solo come fisicità espressiva, ma anche come corpus della sua opera.
Martone adotta questo sguardo ermeneutico quasi si trattasse di attraversare il lavoro di un pittore del Quattrocento (come lui stesso ha dichiarato), ma tale impostazione non ha nulla di artificiosamente saggistico e invece risulta, rossellinianamente, un essai filmico tanto didattico, quanto etico, politico, amoroso. Martone compie una scelta decisiva, quella di porsi in dialogo, lui artista, con un altro artista, e, in modo semplice e umile (come lo era Troisi) quella di fare il film ascoltandolo, rivedendolo, stando con lui. In altri termini convocandone accanto l’anima, chiamandolo da lassù a raggiungerci quaggiù con la forza dell’amore (tema portante e palpitante nel cuore fragile e forte dei film di Troisi).
Rileggere il suo cinema come il lettore «mon semblable, mon frère» invocato da Baudelaire. E di Troisi viene fuori proprio il «coeur mis a nu», arrivando a far ripalpitare quel cuore malato eppure così vitale nel farsi motore di una carica che in lui era a un tempo irresistibilmente comica e melanconica, astratta e concreta, introversa e comunicativa. Ne risulta una sorta di ritratto-autoritratto adottando una forma-montaggio che diventa pratica confidenziale, un percorso di immersione nelle immagini, senza soluzione di continuità tra il cinema e la vita.
A un certo punto del film Roberto Perpignani, che era stato il montatore de Il postino (1994), parla di “montaggio dell’amicizia” a proposito dell’intesa amicale, affettiva tra Noiret e Troisi sul set di quel film, che fu il suo ultimo e che volle girare con il suo cuore e non con quello di un altro, rimandando il viaggio in Usa per il trapianto. Visionando in moviola la passeggiata notturna di Splendor con cui si apre il film, a riaffiorare è appunto il ricordo dell’inizio di una amicizia, nata passeggiando per una stradina di notte a Montpellier, durante il Festival del Cinema Mediterraneo, dove Martone presentava il suo primo film Morte di un matematico napoletano (1992) e Troisi il suo ultimo film Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991).
Da questo momento intimo e singolare il filo dei ricordi diventa quello di una intera comunità: sulla voce di Pino Daniele che canta Je so’ pazzo a sfilare sono le strade della Napoli fine anni settanta (la temperie in cui lo stesso Martone, come Troisi, si formava, muoveva i primi passi nei teatri sperimentali), quelle dei disoccupati organizzati, delle manifestazioni di piazza, e quelle degli scugnizzielli, dei devoti al Cimitero delle Fontanelle, della folla popolare nei vicoli: insomma l’humus napoletano, il suo ventre che nel 1980 si squassa con il terremoto. E con una panoramica dall’alto al basso su un palazzo lesionato e puntellato l’immagine di repertorio diventa il momento “epifanico” dell’entrata in scena di Troisi in Ricomincio da tre (1981). “Gaetano! Gaetano! Gaetàà!”, la voce di Lello Arena è come un richiamo, un invito alla nascita dal quel ventre squassato di Napoli. Massimo con passo incerto viene alla luce, e ricominciando da questa epifania, Martone intraprende il suo viaggio di ri-visione delle immagini di Troisi.
Subito ce le mostra sotto una luce inedita, ponendo l’accento su uno stile e convocando la Nouvelle Vague. Al centro del cinema di Troisi, come al centro del cinema di Truffaut, c’era un nucleo amoroso, una spinta insubordinata, dolcemente riottosa e ribelle, uno scavo nei sentimenti (oltre all’amore, l’amicizia), una libertà e un respiro nell’uso della macchina da presa, e tutto ciò diventava immediatamente politico. Martone monta la corsa a perdifiato di Jules e Jim (1962) con la corsa affannata di Gaetano in Ricomincio da tre, i monologhi allo specchio di Troisi con quello in cui Jean-Pierre Léaud ripete il nome di Antoine Doinel fissando anche lui uno specchio, e ci dice che come vediamo crescere Antoine Doinel nei film di Truffaut, così vediamo, di film in film, crescere, nelle loro variazioni, i personaggi di Troisi. Martone ci sta anche dicendo che il film che monta sotto i nostri occhi è non soltanto una sorta di “lettera d’amore”, un atto d’amicizia, ma anche la costruzione di un protagonista, di un “personaggio” che coincide con il Troisi uomo (da qui il sottile crinale che si gioca godardianamente nel film tra la “oggettività” del documentario e la “soggettività” del racconto).
Si dipanano così diversi fili intorno al sentire all’unisono i momenti di vita e di cinema, la spinta creativa e il respiro esistenziale, la carica emotiva di Troisi. Il dialogo di Martone con Anna Pavignano, che visse con Massimo una storia d’amore e scrisse con lui tutti i suoi film, costituisce il perno intorno a cui ruotano i discorsi che mettono a fuoco tanto l’arte quanto l’umanità dell’attore-regista. Emergono materiali inediti che ne pongono in luce i risvolti profondi, le inquietudini, le fragilità, ma anche una autoironia disincantata.
Emoziona sentire la sua voce incisa su una cassetta che la Pavignano ha conservato. Una specie di “seduta psicoanalitica”, fatta un po’ per scherzo e un po’ sul serio, in cui Troisi si abbandona a una confessione a ruota libera, incalzato dalle domande di Anna e di una amica, e si lascia andare con quell’innocenza e morbidezza che in tanti suoi film costituisce il suo rapporto con il femminile (che è sempre in posizione di forza nel suo cinema), da cui si fa mettere in discussione, scardinando il modello di rappresentazione del maschio che fino ad allora dominava la commedia cinematografica italiana (come nota lo scrittore Francesco Piccolo).
In un altro momento Martone ricorda una definizione dell’attore data da Eugenio Barba: ci sono attori “animus” e attori “anima”, quelli che usano una energia “forte” e quelli che muovono una energia “soave”. Troisi appartiene a questo archetipo della levità, della soavità: è attore-anima, la cui leggerezza fuggevole, il cui sottrarsi, la cui “fanciullezza” ha costituito però una forza. È l’osservazione illuminante che fa nel film Goffredo Fofi quando afferma che Troisi dà voce al puer, la fa finita con l’adultità. È ciò che scrive la Pavignano:
Il pregio di Massimo è stato di essere consapevole del suo essere Peter Pan e quindi di non essersi accollato pesi che poi non avrebbe potuto reggere. S’impegnava senza impegno, amava senza promettere, giurava incrociando le dita, mentiva con spudoratezza, rivendicando il diritto alla bugia come difesa legittima contro chiunque tentasse di mettere le ganasce al suo liberissimo arbitrio in qualsiasi campo (2023, p. 86).
Il cuore fragile di Massimo era anche un cuore adolescente, di eterno ragazzo, e perciò aveva confidenza con la vita quanto con la morte, come tutti i bambini. È anche un po’ quella leggera “ombra metafisica”, aerea, cui accenna Giuseppe Bertolucci in una intervista inserita nel film. In Morto Troisi, viva Troisi! (1982), geniale “autoepitaffio” televisivo mette in scena i suoi funerali ed è tra i suoi lavori quello che più lo avvicina a Totò (che ebbe a dire come i comici hanno sempre qualcosa di ilare e funebre insieme).
Ascoltiamo come lo stesso Troisi riconosca che nei suoi film spesso ricorre la morte, sempre però “accordata” con l’amore, come nell’incipit di Scusate il ritardo (1983) quando Vincenzo si innamora di Anna durante un funerale. Il volto di Troisi emaciato dalla malattia in Il postino fa pensare a Pasolini (che lo avrebbe molto amato se fosse vissuto abbastanza) proprio perché l’ombra della morte contiene la luce dell’amore e della fanciullezza nel suo incantarsi per la poesia.
Del resto Martone insiste nel film sulla sua mercuriale “evanescenza”, quando mette in evidenza il lavoro di Troisi regista sul fuori campo, quando ci mostra il magistrale piano sequenza che chiude Pensavo fosse amore… invece era un calesse con quel movimento di macchina in avvicinamento che lo scopre nascosto seduto al tavolino di un caffè e poi torna a lasciarlo nel fuori campo, arretrando; oppure quando fa vedere Troisi sul set di Le vie del signore sono finite (1987) che predispone la sequenza in cui il suo personaggio si alza guarito dalla carrozzella, e la vuole tutta nascosta fuori campo dalla quinta di un arco.
Un “fuori campo” rispetto alla sua vita sono anche i preziosi pezzettini di carta vergati dalla calligrafia di Troisi che la Pavignano affida a Martone, rivelando con delicatezza un aspetto sconosciuto di Massimo. Con altrettanta delicatezza poetica Martone fa diventare quei foglietti su cui Troisi appuntava idee e battute per i film, oppure le pagine di diario dove annotava le sofferenze, i soprassalti, gli incubi, le speranze durante la sua prima operazione cardiaca, oppure le “cartuscielle” dove scriveva le sue tenerissime poesie, altrettanti messaggi alati, che volano in aria come mossi dal soffio dell’anima di Troisi, per posarsi nelle mani di due ragazzetti seduti su una panchina, e infine aleggiare nel cielo stellato di Roma, sull’arena di Monte Ciocci allestita dai ragazzi del Piccolo America, mentre migliaia di giovanissimi guardano lassù sullo schermo Massimo sceso quaggiù tra di loro (“Vorrei morire come muore un poeta”).
Poi su un foglio di carta una mano disegna un cerchio che si chiude, gesto in qualche modo anche inaspettato e sospeso (come i finali dei film di Troisi). Il film che tanto tempo fa si ripromisero di fare insieme ora è diventato questo tributo, questo pegno di amicizia. Così Martone ci restituisce la grazia di Troisi con i «frammenti di un discorso amoroso» tutto trasfuso nel gesto di un montaggio che si fa “montaggio dell’amicizia”.
Riferimenti bibliografici
F. Chiacchiari, D. Salvi, a cura di, Massimo Troisi. Il comico dei sentimenti, Sentieri Selvaggi, Roma 1991.
A. Pavignano, in Troisi 70. Il Massimo dell’arte, Repubblica-Guida, Napoli 2023.
Laggiù qualcuno mi ama. Regia: Mario Martone; sceneggiatura: Anna Pavignano, Mario Martone; fotografia: Paolo Carnera; montaggio: Jacopo Quadri; musiche: Pino Daniele, Antonio Sinagra, Luis Bacalov; interpreti: Francesco Piccolo, Anna Pavignano, Valeria Pezza, Goffredo Fofi, Paolo Sorrentino, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Michael Redford, Roberto Perpignani; produzione: Indiana Production, Medusa Film, Vision Distribution; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia; durata: 128’; anno: 2023.