Miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista. Gli ultimi David di Donatello hanno incoronato Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, il film sulla vita del pittore Antonio Ligabue, certificando – qualora ce ne fosse ancora bisogno – la centralità della produzione biografica nel panorama cinematografico contemporaneo, in particolare italiano. Se a questi aggiungiamo i premi a scenografia, suono, acconciature e trucco (premio quest’ultimo andato ad Hammamet di Gianni Amelio, il biopic sul periodo tunisino di Bettino Craxi), la costellazione degli elementi distintivi del film biografico si completa. Il biopic è proprio questo: il luogo dove emergono in modo specifico i caratteri “tradizionali” di un cinema fatto di autori, di attori e di maestranze che manipolano gli elementi scenici per trasformarli in eterea materia cinematografica, a discapito della preminenza della scrittura e degli effetti digitali che caratterizzano il campo dell’audiovisivo contemporaneo.

Ma che cos’è il biografico, anche al di là dei territori filmici? Se una definizione di base appare molto semplice, svolgere la trama delle sue implicazioni non risulta altrettanto immediato. Recita il vocabolario Treccani che “biografia” è «narrazione delle vita di una persona (perlopiù illustre, o comunque sia ritenuta dall’autore meritevole di essere conosciuta)», “biografico” «attiene alla storia della vita di una o più persone», e “biopic” è un «genere cinematografico incentrato su tematiche biografiche». Nulla da obbiettare, se non fosse che queste tre definizioni non ci aiutano granché a dipanare l’intricata matassa.

Che cos’è davvero una vita, ci potremmo anzitutto domandare: quali sono i suoi confini, quali i suoi limiti, le sue dominanti e le linee di coerenza o di incoerenza. Una vita fatta di ripensamenti, di inversioni o di cambiamenti radicali continua a essere una, oppure sono molteplici? Gilles Deleuze, rileggendo Michel Foucault, aveva già espresso come la lotta alla soggettività si manifestasse come diritto alla differenza, alla variazione e alla metamorfosi per sottrarsi alle maglie di un doppio assoggettamento, quello dell’individuazione da parte del potere (dunque una soggettività coatta, imposta dall’esterno) e quello di un’identità preconfezionata, stabilita una volta per tutte. Basta volgere lo sguardo alle battaglie politiche che ci circondano nei vari angoli del pianeta: la vita, l’oggetto indiscutibile del biografico, ci appare un terreno tutt’altro che condiviso e pacificato.

In secondo luogo, qual è l’orizzonte narrativo di questa vita, a maggior ragione se tanto più ampia e complessa e dunque, ipotizziamo, tanto più meritevole di essere raccontata? È questa la domanda che si pone il personaggio di Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman) in Mank (2020) di David Fincher, anch’esso premiato con diverse candidature all’ultima edizione degli Oscar: «Come si fa a racchiudere la vita di un uomo in due ore di film?». Mank, film biografico sullo sceneggiatore di un film biografico – seppur sotto mentite spoglie – come Quarto potere (1941) di Orson Welles, che a sua volta si interrogava sul come ricostruire la vita di un uomo, Charles Foster Kane alias William Randolph Hearst, di cui si sapeva praticamente tutto. L’abisso del biografico si spalanca di fronte ai nostri occhi.

E dato che tale interrogativo continua a risuonare, nonostante gli ottant’anni di differenza tra i due film, potremmo infine chiederci, a questo punto legittimamente, se il biopic sia davvero un genere cinematografico, oppure se non sia piuttosto una tensione che attraversa il campo del cinema e dell’audiovisivo per metterlo dialetticamente a confronto con un orizzonte culturale tipico del presente. Una tensione che accomuna diverse esperienze artistiche e diversi formati mediali, la cui urgenza sta emergendo sempre più con chiarezza nelle riflessioni recenti. Così, se nel 1950 André Bazin poteva liquidare con sarcasmo la biografia filmata evidenziando il «disagio» dello spettatore di fronte all’interpretazione attoriale, specie se il modello originale era ancora in vita, Walter Siti al contrario auspica in chiusura del suo ultimo La natura è innocente che la biofiction possa acquistare sempre maggior peso negli studi letterari a discapito dell’autofiction (della quale oltretutto Siti è stato esponente di punta) seguendo proprio quanto avviene nel campo degli studi filmici. Emmanuel Carrère e Antonio Scurati, tanto per fare due nomi: narrare la vita altrui è una sfida che appare sempre più urgente ai romanzieri del XXI secolo.

Di fronte a questo variegato intreccio di problemi, constatiamo come in generale la critica e la teoria si trovino un po’ spiazzate. Di solito, il biografico non figura come criterio tassonomico nei compendi storici delle arti narrative, schiacciato dalla contiguità forse eccessiva con i territori della storiografia (che a sua volta con la biografia ha intrattenuto un rapporto conflittuale sin dalle sue origini) e dunque difficilmente tracciabile nei suoi confini. Troppo specifico e troppo generico al tempo, il racconto delle vite tiene insieme criteri all’apparenza inconciliabili, tra fedeltà al dato storico ed esigenze creative di messa in forma, tra formule codificate e singolarità dell’oggetto. Eppure, il biografico prospera, e prosperando ci obbliga a confrontarci con le questioni che con sé, inevitabilmente, trascina.

L’esigenza di raccontare la vita non nasce dal nulla. Ma oltre alla dialettica tra “storia fatta dagli uomini” e “uomini forgiati dalla storia” che da sempre attraversa il campo storico-filosofico, nel presente nuove tensioni contribuiscono a modellare i contorni di tale “svolta biografica”. Si tratta di fenomeni ampiamente studiati dalla teoria critica: l’esposizione del sé attraverso i media, più o meno social; la confusione tra realtà e reality; la centralità della vita come oggetto delle politiche del contemporaneo. Se l’idea stessa di vita si infittisce nelle sue ramificazioni e nelle sue implicazioni, il biografico non sembra più solamente un riflesso che certifica tale ribalta della vita individuale nelle pratiche sociali del quotidiano, ma forse, più in profondità, una strategia per far fronte al bisogno di dotare di senso questa vita così articolata e stratificata.

Dare un nome alla vita: ecco la funzione principale del biografico. Esigenza imprescindibile, trasversale nel tempo e nei formati discorsivi, che nel presente non assolve più a un compito esemplare – proporre cioè dei modelli edificanti e suscettibili di conformazione – ma epistemico – costruire dunque delle cornici di senso che riconducano le traiettorie disperse dentro l’univocità del nome proprio. Ma questa costellazione di nomi può anche essere posta sotto un segno inverso: il nome diventa cioè la punta visibile di una falda sotterranea e instabile nella quale si mescolano le tensioni anche contraddittorie che la vita racchiude in sé.

Non è un caso che la biografia sia diventata sempre più politica, specialmente nel campo dell’audiovisivo. Perché forse il biografico, oggi, deve essere inteso come un’ipotesi radicale che affronta le costrizioni che il corpo e l’esistenza subiscono sotto la pressione di norme che intendono regolamentarla sin negli anfratti più intimi e oscuri. Norme che ovviamente non vanno ricondotte esclusivamente alla sfera del diritto, ma che contemplano piuttosto tutte quelle consuetudini sociali che definiscono il dovere nel quotidiano. Il biografico-politico – che è la cifra più originale della biografia contemporanea – non riguarda dunque solo le figure che esercitano il potere, ma anche tutte quelle sulle quali il potere si esercita obbligando a fare e, soprattutto, obbligando a essere.

È una prospettiva minoritaria, ma che sta acquistano un rilievo considerevole nel panorama biografico e, per estensione, nell’orizzonte culturale del presente: si pensi solo a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini o, in campo letterario, Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati. Ma se così stanno davvero le cose, allora la fedeltà alla verità storica non è più la preoccupazione stringente del biografico contemporaneo, né il criterio principe del giudizio nei suoi confronti. Questo biografico intende infatti la scrittura della vita come un problema specifico di messa in forma, piuttosto che come veicolo di memoria. Inventare la vita, non semplicemente ricostruirla: eccola la svolta biografica, la svolta del nome proprio che non vuole più identificare l’individuo, ma riunire il molteplice al di fuori del soggetto.

E se la politica, oggi più che mai, si dà anzitutto come immagine e racconto, il biografico è allora quella strategia obliqua che affronta i processi di costruzione del senso in comune nell’interstizio tra l’individuale e il collettivo. Contemporaneo il biografico lo è proprio in questo: nel ripensare il racconto della vita nelle sue implicazioni storicamente e politicamente determinate alla luce dello specifico mediale che di volta in volta rende possibile questo stesso racconto. Perché appunto la vita, come la politica, è di per sé frutto di un racconto che sempre più si dà per immagini, senza il quale semplicemente non avrebbe senso. Il biografico, dunque: metacritica del nostro tempo.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.

R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Carocci, Roma 2019.
G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2007.
R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.
S. Loriga, La piccola x. Dalla biografia alla storia, Sellerio, Palermo 2012.
H. Renders, B. De Haan, J. Harmsma, The Biographical Turn. Lives in History, Routledge, Londra 2016.
A. Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Bompiani, Milano 2015. 
W. Siti, La natura è innocente. Due vite quasi vere, Rizzoli, Milano 2020.

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