C’è una lunga fila nell’atrio del cinema. È una piccola multisala di semiperiferia, due sale su due piani in un palazzo residenziale, di quelle dal sapore nostalgico che proiettano i cosiddetti “film di cassetta” e sembrano sempre sul punto di dover chiudere da un giorno all’altro, prese tra i multiplex nei centri commerciali e le rinnovate sale “d’essai” che organizzano festival e proiettano anche in lingua originale. Nella Sala Grande al piano inferiore è ancora in cartellone Tolo Tolo, ma pochi, tutto sommato, sono gli spettatori giunti lì per Checco Zalone; e quando riesco finalmente a entrare nella sala in cima alle scale, il mio film è già iniziato e i posti liberi rimasti sono ben pochi. Chi frequenta questi luoghi in via d’estinzione può immaginare l’eccezionalità della scena, tale da indurre addirittura i gestori a riaccendere le luci, fermare la proiezione e dopo pochi minuti farla ripartire dall’inizio.

Piuttosto che il gesto autoreferenziale da vecchio critico consumato, il racconto dell’esperienza di visione di Hammamet – l’ultima opera di Gianni Amelio dedicata all’auto-esilio tunisino di Bettino Craxi con protagonista Pierfrancesco Favino – permette di evidenziare una delle caratteristiche più interessanti nel panorama contemporaneo: il ritorno e l’attualità del cinema italiano come componente rilevante nella vita sociale del presente. In questi primi giorni del 2020, Zalone e Amelio (e volendo anche Matteo Garrone con Pinocchio) hanno catalizzato l’attenzione di critici e pubblico, presentando un panorama del cinema nazionale articolato secondo declinazioni moderne della tradizione cinematografica italiana, ovvero commedia impegnata, favola d’autore e biografico politico. Se i film sono tornati a essere un momento forte di elaborazione dei nodi irrisolti che attraversano il presente, dal canto suo il cinema italiano, nella produttiva diversità che lo ha sempre connaturato, sta forse (ri)trovando stabilmente una propria direzione nel riportare il filmico al centro della quotidianità pubblica.

Hammamet è l’ultimo episodio della vena biografico-politica che definisce probabilmente l’orizzonte più specifico della cinematografia recente e come tale ha innescato da subito le inevitabili reazioni che questo filone suscita: il dibattito sull’effettiva corrispondenza del mondo rappresentato alla realtà storica, la critica alla mancanza di una denuncia politica esplicita, il gioco al riconoscimento delle figure frutto di invenzione. Si tratta probabilmente di un riflesso incondizionato, perché Amelio prova invece a eluderle quanto più possibile, sia rendendo irriconoscibili coloro che si muovono attorno al Presidente (così è chiamato e così appare nei titoli di coda), sia spostando la narrazione su un piano sospeso al di sopra della cronaca storica, sollevando piuttosto alcune domande che vanno oltre la figura di Craxi. E anzi, l’espediente della confessione esclusiva di un segreto, che costituisce il nucleo dietrologico di ogni biopic militante, viene evocato solo per essere deliberatamente negato con un movimento di macchina e una sovrapposizione sonora (come già genialmente fatto da Franco Maresco in Belluscone nell’intervista a Marcello Dell’Utri) che faranno restare il segreto rinserrato nella cassetta consegnata nel finale alla figlia Anita (Livia Rossi).

Tutto parte da un’idea semplice benché sempre attuale: la sovrapposizione tra il corpo del leader politico e la sua immagine pubblica, la cui saldatura definisce un processo di “monumentalizzazione in vita” che, nelle intenzioni dei soggetti coinvolti, dovrebbe garantire la conservazione perpetua nella memoria collettiva. «Eri troppo impegnato a costruirti un piedistallo», recrimina un quasi-Vincenzo Balzamo (Giuseppe Cederna) nella lettera recapitata attraverso il figlio Fausto (Luca Filippi) all’ex segretario socialista nella sua villa tunisina. Il piedistallo è appunto la base necessaria sulla quale erigere un monumento e che, di per sé, definisce le pertinenze rispettive dello spazio dell’opera e dello spazio del culto che la circonda. E Craxi è stato notoriamente il primo vero campione di questa rinnovata dimensione dossologica, cultuale del potere a partire dalla creazione di momenti liturgici tra i quali il più magniloquente rimane il XLV Congresso del PSI tenutosi nel maggio 1989 nell’ex fabbrica dell’Ansaldo a Milano.

È questo l’incipit visivamente straordinario di Hammamet, che ci conduce ad assistere in platea a quell’evento eccezionale svoltosi pochi mesi prima il terremoto che investirà le sinistre di tutto il mondo e in particolare quella italiana: il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica. Lo smantellamento della tradizione socialista novecentesca (culminata con l’adozione del garofano di fine ‘800 al posto della falce e martello) che ha definito l’architrave della lunghissima segreteria di Craxi troverà la sua icona in quella piramide di schermi, la scenografia costruita da Filippo Panseca che segna l’apice e la tomba del culto della personalità craxiana, nonché l’inizio della dimensione spettacolare che sarà la caratteristica peculiare della politica italiana dagli anni ‘90 in poi. Questa sequenza – che è l’unica a fornire quell’appiglio alla memoria visiva dello spettatore che costituisce uno dei principali motivi di interesse verso i biopic odierni – circoscrive dunque il piano della Storia come fondamento dell’intero film. Ma lo fa con un accorgimento singolare: il darsi attraverso una finestra il cui vetro è infranto dal giovane Bettino con una fionda. Questa modalità di incorniciatura dell’evento, oltre a operare una vertiginosa sutura anacronistica tra tempi distanti, definisce la centralità dello schermo come supporto di comprensione del mondo al cinema e, insieme, della politica nel contemporaneo.

L’idea di schermo attraversa tutto il film, dai minimi dettagli (ad esempio la televisione fuori campo che si riflette in una delle fotografie appoggiate sul tavolino del salotto della villa) sino alla struttura nel ricorso a un doppio formato (il 16:9 del film vero e proprio e il 4:3 della telecamera amatoriale interna alla storia che compone una sorta di testamento politico). Per quanto si tratti anche di un espediente finalizzato a mettere tra virgolette i momenti più dichiaratamente politici del film, in un certo senso frapponendo una distanza tra sé e il pensiero craxiano, l’idea di fondo è che lo spazio della politica si giochi all’interno dell’immagine, pena la sua irrilevanza come elemento attivo di creazione della scena pubblica. «Falli entrare, devono vedere tutti la mia gamba!» urla Craxi furioso ad Anita nel pronto soccorso tunisino. «Chi papà?» «I giornalisti!» «Non c’è nessun giornalista qui fuori». Nessuno è presente a testimoniare la sofferenza dell’“esilio dorato”; è questa la vera fine – e il protagonista lo comprende subito – della sua centralità politica: l’Italia ha voltato pagina.

Perché il rischio di ogni monumento, in quanto tale, è quello non di essere esposto in una piazza, nel cuore cioè dello spazio pubblico a orientare con la sola presenza la vita sociale, ma in un museo, privato della sua funzione originaria, oggetto di contemplazione eventuale per spettatori interessati all’antico. Il monumento è dunque sotto il segno costitutivo dell’inoperosità ed è lungo questa direzione che il film si riallaccia con una tradizione tutta italiana nel trattamento delle figure del potere, da L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci a Loro (2018) di Paolo Sorrentino. Craxi e Silvio Berlusconi, così legati in vita, trovano al cinema un ulteriore elemento di comunanza: la noia come risvolto dell’azione decisionista. A questo punto, il potere inoperoso non può far altro che raggrinzire entro la dimensione del privato. Qui si trovano forse i due aspetti più originali del film, che esplorano in forma singolare la traccia classica del biopic americano che consiste nel mostrare il lato privato dell’esponente pubblico per illuminarne le virtù come materia di imitazione o, più di recente, i segreti oscuri come argomento di critica politica.

La prima riguarda il lavoro di Favino. Sin dalla comparsa dei primi spezzoni video, poco meno di un anno fa, la sua interpretazione ha destato stupore unanime per una capacità mimetica quasi soprannaturale, considerando anche la differenza di fisiognomia con Craxi e il suo recente ruolo nei panni di Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio Il traditore (2019). Si tratta del frutto di 5 ore giornaliere di trucco, fatto che tra l’altro evidenzia ancora una volta la sopravvivenza dell’artigianato delle maestranze come fonte di meraviglia nell’epoca della manipolazione digitale. Durante il film, lo stacco tra il suo personaggio e tutti gli altri è tale che si crea una evidente frattura interna alla rappresentazione stessa: da un lato la ricostruzione della vicenda storica, dall’altra la costruzione di un universo finzionale autosufficiente.

La divaricazione tra volto e maschera emerge pienamente con la comparsa in scena di Renato Carpentieri, un non meglio identificato esponente «avversario ma non nemico» di una forza partitica alternativa al PSI: mentre nel Craxi di Favino la maschera oscura completamente il volto, rendendone irrintracciabili i tratti fisiognomici originali, in Carpentieri la maschera si rende totalmente trasparente, lasciando emergere il volto nella sua pienezza. Si tratta dei due estremi della pratica attoriale, e la loro compresenza indica il duplice sviluppo del film come riflessione da un lato sul passato e dall’altro sul presente della scena politica italiana. Come figura staccata dal resto del mondo raccontato, Craxi è il corpo sul quale interrogarsi sulla memoria di un Paese in uno snodo storico decisivo, piuttosto che l’oggetto di un dibattito sulle scelte politiche dell’oggi.

Qui si innesta il secondo aspetto, quello delle relazioni private, che sono poi sempre più sotto il segno del rapporto padri-figli. È un tema che occupava già un ruolo centrale nell’ultimo film di Amelio, La tenerezza (2017), e che in Hammamet diventa indice di un’eredità non raccolta – forse perché non raccoglibile – dalle nuove generazioni, dalla figlia Anita e dal figlio Francesco (Alberto Paradossi), che non sognano affatto di uccidere il padre, semmai di preservarne il monumento sotto la cui ombra rassicurante continuare nel loro incedere lungo il cammino di una vita che non sarà mai all’altezza del genitore (di uno solo, dato che la madre è relegata alla completa irrilevanza). È qui che si può rinvenire il vero nucleo tragico del film, tragico perché quel dramma famigliare si estende all’intera nazione.

«Si è smesso di parlare di “popolo”, oggi si parla di “gente”» recita Craxi in uno degli intermezzi politici che scandiscono il racconto. Quel popolo oggi così evocato sulla scena pubblica, del quale qualcuno se ne intesta la paternità, è dunque un popolo senza padri, incapace cioè di accogliere ed elaborare l’eredità politica perché la politica ha iniziato a darsi altri obbiettivi, altre prerogative, a mutare i propri interessi; e di converso, perché quello che prima si cercava nella politica è stato progressivamente cercato altrove, ad esempio nella giustizia. Quel finale onirico, tra Bellocchio e Fellini, dove è Craxi a ritrovare suo padre (e non certo i suoi figli, che anzi mette a distanza quanto più possibile), sovrappone al film una patina di irreversibile nostalgia per un’Italia dove la politica ancora funzionava da orizzonte di senso nella sua condivisibilità e trasmissibilità tra le generazioni. Che ne è di quell’eredità, il “tesoretto nascosto” che ancora arrovella giornalisti e detrattori? Ecco la domanda che Hammamet non smette di porci.

Riferimenti bibliografici
E. Gentile, Un popolo senza padri. Intervista sul Risorgimento, Laterza, Roma-Bari 2011.
M. Grande, Eros e politica, Protagon, Siena 1995.
J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia Einaudi. Vol. V, Einaudi, Torino 1978.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

Hammamet. Regia: Gianni Amelio; sceneggiatura: Gianni Amelio e Francesco Taraglio; fotografia: Luan Amelio; montaggio: Simona Paggi; musiche: Nicola Piovani; interpreti:  Pierfrancesco Favino, Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Livia Rossi, Luca Filippi, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna, Alberto Pradossi; produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia; durata: 126’.

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