Cosa può “dire” un film, un film come Sulla mia pelle, che non è un documentario, ed è interpretato da attori, con una regia, una scenografia, delle musiche? Cosa può dire in più di un’inchiesta giornalistica veritiera, delle testimonianze, dei referti medici, degli atti d’un processo, delle manifestazioni, delle inchieste? Cosa in più delle ripetute denunce di una situazione intollerabile, che invece si continua colpevolmente a tollerare? Cosa in più, o di diverso, perfino rispetto a un documentario vero e proprio, girato dando la parola ai parenti di Stefano Cucchi (prima di tutto alla sorella Ilaria), mostrando filmini familiari e dando voce alla vittima stessa, tramite la lettura delle sue lettere, fatta da un attore? Sto pensando a 148 Stefano – Mostri dell’inerzia, girato nel 2011 da Maurizio Cartolano, che pure è capace di commuovere e far riflettere (148 era il numero dei decessi in carcere, quell’anno). Rispetto a tutto ciò, cosa “dice” in più Sulla mia pelle? Ebbene, forse il dire di questo film di Alessio Cremonini sta proprio nel suo non-dire, è un mostrare senza dire.
Se questo è vero, allora il mostrare stesso deve fare i conti con ciò che non è mostrabile, non per opportunismo, reticenza o timidezza, ma perché l’eccesso del mostrare richiama necessariamente l’implicazione nel dramma d’accatto, nella spettacolarizzazione da quattro soldi. Se si vuole davvero raggiungere l’efficacia, anche e soprattutto politica, bisogna almeno perseguire l’arte dell’ellissi, dello staccare al punto giusto. Alessio Cremonini, giovane regista al suo secondo film (dopo Border, del 2013), sa coltivare la padronanza del montaggio, scandire i tempi giusti, ricercare l’inquadratura più significativa. Si tratta di capire che si sta lavorando su una materia incandescente, che in quanto tale ha bisogno d’essere raffreddata, proprio per bruciare di più.
La ricerca dell’inquadratura più significativa e dei tempi giusti non ha niente a che fare col formalismo, né con la sterile esibizione di bravura cinematografica. Ciò che deve emergere è la verità del gesto, la verità del corpo, la verità della sofferenza, il senso angosciante della sua durata e queste cose possono essere veicolate dalla distanza e dall’ellissi come dalla più stretta vicinanza, dal campo lungo come dal dettaglio d’un volto tumefatto. La porta d’una cella può chiudersi sulla scena di un pestaggio, lasciandocelo immaginare – e proviamo forse, nell’immaginarlo, un malessere peggiore che nel vederlo, perché nel vederlo, inevitabilmente, percepiamo l’intervento del fittizio, del ricostruito.
Ma Sulla mia pelle è, principalmente, la storia di un’agonia, d’una violenza inaccettabile, prolungata dall’incuria e dall’indifferenza delle istituzioni: la storia di una violenza scritta sul corpo, anzi sulla pelle, di un giovane di nome Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri per possesso e spaccio di stupefacenti, a Roma, una sera d’ottobre del 2009, e mai tornato a casa, morto nella cella d’un ospedale/carcere dopo sette giorni di indicibili sofferenze. Si trattava di un tossicodipendente? Si, di un tossicodipendente finito per sua disgrazia nelle mani di istituzioni brutali, ciniche o indifferenti. Si mostra la scrittura della violenza sul corpo, leggibile attraverso i segni (lividi, tumefazioni, ecchimosi) che lascia sulla pelle, che sulla pelle poco a poco affiorano, si aggravano, sfigurando i lineamenti, spezzando ogni resistenza.
Il dolore cresce subdolo, diventa pian piano insopportabile. Allora la pelle, che ricopre e nasconde come un abito, diventa l’ultimo abito, si potrebbe dire l’ultimo sipario della carne nuda, e lascia infine trasparire, quasi per porosità, lo sfacelo degli organi interni. Stefano cerca di sottrarre alla vista il suo corpo martoriato tenendo anche la testa sotto una coperta. Non mangia, non beve. Si sottopone controvoglia ai pochi esami clinici che gli vengono fatti. Si direbbe che vada incontro alla sua Passione, al suo destino di crocefisso. Perché? Forse per un’oscura volontà di martirio, o piuttosto perché la forza di certi traumi è tale da lasciare inebetiti, quasi increduli, quelli stessi che ne sono vittime?
Fuori dell’ospedale/carcere, respinti da voci senza volto che vengono da un citofono e si appellano ai regolamenti, i genitori, la sorella Ilaria, non hanno il permesso di vederlo, e neppure di chiedere ai medici notizie sulle sue condizioni. Utilizzando i pretesti più diversi (mancanza d’un permesso, di un’autorizzazione, di un timbro), il corpo di Stefano è un corpo che ad ogni costo deve essere sottratto alla vista, un corpo che costituirebbe, col suo solo mostrarsi, la denuncia di un flagrante reato; è ormai, del resto, un corpo irriconoscibile, terrificante, torturata spoglia organica.
Per ragioni ben diverse, il film stesso ha ritegno, quasi pudore, a mostrarlo. Si vede, sì, il volto gonfio e tumefatto d’uno stupefacente Alessandro Borghi, vera reincarnazione di Stefano; si vedono le sofferenze, l’agonia, la morte, ma nello stesso tempo si percepisce il rifiuto di farne occasione di spettacolo, come pretesto per un’indignazione a buon mercato. Sulla mia pelle è un film serio, un esempio rigoroso di cinema del reale, il resoconto impressionante d’una vicenda traumatica, che riesce nello stesso tempo a essere anche figurativamente coerente, a essere anche cinema.