Dal cielo in bianco e nero, appena orlato di nuvole, sul quale passano i titoli di testa, la macchina da presa scende su una strada sterrata, dove due macchine corrono, sollevando una polvere che rende difficile leggere i cartelli indicatori; ma niente paura, non c’è pericolo di non capire dove siamo e quando. Le indicazioni di sceneggiatura (di Jack Fincher, padre del regista David) sono iscritte nel film dallo stesso David, come omaggio a suo padre, alla Hollywood degli anni trenta e quaranta (il cinema è alle prese col sonoro e con la depressione economica), al bianco e nero, a Herman Mankiewicz, a suo fratello Joseph, a Charles B. Mayer: «Esterno giorno. Victorville. 1940. Ranch degli ospiti».

Da una delle macchine scende Mank, Herman Mankiewicz (uno strepitoso Gary Oldman), scrittore geniale, sceneggiatore, alcolizzato, amante del gioco d’azzardo, appena reduce da un incidente d’auto in seguito al quale si è rotto una gamba. Il suo corpo è pervaso da mille dolori, le sue notti visitate dal fantasma di Orson Welles – eppure ha preso con la RKO l’impegno di finire entro 60 giorni la sceneggiatura di Citizen Kane (Quarto potere, 1941). La RKO e il Mercury Theatre: strano connubio.

Anche vedendolo sul piccolo schermo, tramite Netflix, Mank appare subito come un grande film sontuoso, la cui vocazione è il grande schermo, ma nella contraddizione felice del bianco e nero. Il cinema insomma è (era) grande spettacolo, i film sono (erano) mallevadori dei sogni, più grandi di qualunque realtà, indipendentemente dal formato e dalla presenza o meno del colore.

Mank e Orson Welles inventano Citizen Kane. Mank lo scrive stando a letto, assistito da un’infermiera tedesca e dettando a una brava, intelligente segretaria le parole nuove, mai udite prima sullo schermo, che lei batterà a macchina e Welles tradurrà in immagini. Sarà il film della vita, quello che la stessa RKO aspetta con ansia e insieme preoccupazione da uno scrittore che non lavorerebbe mai per la metà dei produttori hollywoodiani e che l’altra metà non farebbe mai lavorare.

Chi è Kane? Quale personaggio reale lo ha ispirato, ammesso che una creatura di fantasia debba per forza ispirarsi a un personaggio reale? Mank rifiuta ogni facile identificazione, ma tutti nell’ambiente riconosceranno il magnate William R. Hearst, tycoon ricchissimo, editore di giornali con grandi ambizioni politiche (frustrate), collezionista d’arte, proprietario d’un castello favoloso che nel film si chiamerà Xanadu. Hearst produce anche film, è sposato e separato da una moglie che non gli concede il divorzio e la sua compagna attuale è l’attrice Marion Davies (Amanda Seyfried). Ne era tanto geloso da essere coinvolto nello scandalo-Ince (non fu mai provato, ma si diceva che Hearst avesse sparato a Chaplin, sospettando fosse l’amante della compagna, uccidendo per errore Ince, produttore e regista, che festeggiava il compleanno a bordo del suo yacht).

Quarto potere comincia con la morte di Kane, e si conclude con la rivelazione del mistero Rosebud, lo slittino dell’infanzia. Mank e Welles danno la parola a Kane, gli fanno esporre le sue idee politiche (contraddittorie), in una struttura a spezzoni, sempre presa nel vortice d’un montaggio frenetico; Mank, però, vede oltre i limiti dello stesso Hearst. Non solo è convinto che non si possa esaurire la vita d’un uomo nel tempo d’un film, ossia d’un paio d’ore, ma pensa che quel personaggio spregevole in fondo avesse solo bisogno di essere amato, o di sentirsi tale. In Mank comunque non si accenna allo scandalo-Ince: Marion Davies diventa la musa dello scrittore, istaura con lui un platonico rapporto amichevole e grazie ai suoi consigli lascia i ruoli “drammatici”, che non le si confanno, per dedicarsi alla commedia (sua vera vocazione) – ma questo non incrina il solido rapporto di Mank con sua moglie Sara.

Herman ha un fratello minore, Joseph, che diverrà un famoso regista (tra i suoi film: Lettera a tre mogli, 1949, Eva contro Eva, 1950, La contessa scalza, 1954, Giulio Cesare, 1953, Improvvisamente l’estate scorsa, 1959, Cleopatra, 1963). È Herman a presentarlo a Louis B. Mayer (Arliss Howard), boss della MGM. La gente, dice Mayer, crede che MGM significhi Metro Goldwin Mayer, ma non è così. Le iniziali MGM vogliono dire (forse in yiddish) “tutta la famiglia di Mayer”. I film devono far piangere, devono trasmettere emozioni. E come si trasmettono emozioni? Nel catechizzare Mank e Joseph, Mayer è esplicito: bisogna che qualcosa tocchi il cervello, il cuore e i coglioni. Lui conosce bene quest’arte, sa applicarla non solo ai film, ma anche alla conduzione dell’azienda: durante un’affollata assemblea, in piena depressione, ottiene che i suoi dipendenti accettino una decurtazione dello stipendio, con la semplice promessa che la cosa non durerà a lungo e che in seguito tutti saranno risarciti.

Il cinema in bianco e nero, quello che emoziona anche senza i toccamenti di Mayer, è il Rosebud dei Fincher, padre e figlio, la loro passione non segreta. Eppure c’è un ultimo risvolto che rimette tutto in gioco. Mank ubriaco si presenta a un banchetto attorno al quale stanno mangiando i commensali di Willie Hearst (compresa Marion Davies). Vomita, tutti scappano via schifati. Solo Willie non si scompone e racconta a Mank, accompagnandolo alla porta, la parabola della scimmia e del suonatore d’organetto. La scimmia è selvaggia, sa solo danzare al suono della stessa canzone, ma una signora pietosa le regala un bel vestito rosso, un corsetto, un fez, scarpe a punta, un ciondolo d’oro da portare al collo. La scimmia pensa: devo essere molto potente, se tutti accorrono a vedermi ballare. Se rifiutassi, questo poveraccio che mi porto dietro non avrebbe di che campare.

La parabola è inquietante. Per Willie, Mank e Welles credono di condurre le danze – in realtà non hanno più autonomia della scimmia rispetto al suonatore d’organetto. È il sistema a suonare la musica, ma questo è proprio ciò che Mank non accetta. Rifiuta l’anonimato che gli viene proposto, dividerà con Orson l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Profetizza la futura emarginazione del regista da Hollywood: “Aspettano solo di dare sfogo al loro odio”. In Brasile, lontano Welles per girare un film, malato Herman, i suonatori d’organetto cominciano la loro opera.

Mank. Regia: David Fincher; sceneggiatura: Jack Fincher; fotografia: Erik Messerschmidt; montaggio: Kirk Baxter; musiche: Trent Reznor, Atticus Ross; interpreti: Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Charles Dance, Arliss Howard, Tom Pelphrey; produzione: Netflix; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; durata: 131′.

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