Le spalle nude di un giovane corpo femminile in posa, in profondità di campo gli studenti di una Accademia di Belle Arti che si esercitano in un nudo dal vero. Un taglio netto mostra in controcampo il corpo di Carmela, il suo sguardo duro, accigliato, le labbra serrate. Si tratta proprio di un ritratto, ispirato a un incontro reale (che avrebbe dovuto diventare un documentario), quello che Marcello Sannino realizza con il suo primo film di finzione Rosa pietra stella (2020).

Carmela vive con la madre, spenta e rassegnata a una vita di stenti e speranze vane, e con la piccola Maria (che è Ludovica Nasti, la Lila di L’amica geniale, con il suo broncio corrucciato e gli occhi verde acqua), chiusa in un mutismo che accresce il senso di colpa di Carmela. Tre generazioni femminili di un proletariato urbano (a Portici, nell’entroterra napoletano) che sopravvive di espedienti, di lavoretti. Carmela è sotto sfratto esecutivo, tira a campare, ma è fiera, orgogliosa. Una guerriera messa a confronto ogni giorno con la durezza della vita. La sequenza iniziale è un po’ la dichiarazione metaforica e insieme stilistica del film. Le posture del suo corpo, i suoi atteggiamenti, la malinconia e insieme l’acutezza disincantata del suo sguardo costruiscono tutt’assieme il corpo filmico, la sua risonanza. Carmela è coinvolta in un traffico di permessi di soggiorno, viene raggirata da un avvocato senza scrupoli che intasca i soldi degli immigrati e sparisce. I conflitti in famiglia aumentano e lei si sente perduta, finché non incontra Tarek, un immigrato algerino (un efficacissimo Fabrizio Rongione), con cui nasce una storia d’amore, che la fa riemergere dalla sua disperazione. Ma la situazione precipita, un’assistente sociale strappa Maria alla madre per affidarla a una casa famiglia. Ciò avviene proprio quando il rapporto con la figlia si evolve verso un riconoscimento reciproco, una tenerezza che si dipana in momenti in cui è nel silenzio tra le due, nei gesti di affetto (filmati da Sannino con un pudore e una empatia che si traducono in uno sguardo terso) che sopravviene la vicinanza ritrovata, la solidarietà madre-figlia.

Proprio la circolazione degli sguardi, il modo di filmare il silenzio, i piccoli gesti, e insieme i vuoti e i pieni di una Napoli grigia e livida, malinconica ma che possiede anche una sua sommessa dolcezza, è ciò su cui lavora Sannino.

Il linguaggio femminile, mantenendo l’affettività del legame con la madre, non lo sostituisce con le parole, ma vi sta accanto, accettando i limiti del dire. Con le parole non si può dire tutto. Il linguaggio non è onnipotente. Si può dire limitrofamente all’esperienza senza esprimere tutto di essa. Gli uomini pensano di rifare la realtà parlandone e parlandosi tra loro. Questo risulta impossibile alle donne. La solitudine di chi tace è irriducibile e, in quei silenzi, tutto può accadere (Cotugno 1999, p. 126).

Sannino mette a frutto la sua esperienza di documentarista distendendo lo sguardo sugli spazi, alternando campi lunghi e primissimi piani, con una incisività che, come diceva Serge Daney, misura la distanza e la prossimità tra sé e l’altro. Sono i modi con cui filma una attrice sensibilissima, vibrante, Ivana Lotito (che si era già distinta nella serie Gomorra), nei suoi comportamenti, nella resistenza e al contempo nell’apertura del suo corpo davanti alla macchina da presa. Se ne coglie l’anima, la caparbietà, il coraggio, e un paradossale “potere della fragilità”. Si tratta quasi di intagliare, scolpire l’immagine, il rapporto tra corpo e spazio, per ricomporne un ritratto che è soprattutto quello di una condizione, in cui l’essere donna e l’essere emarginata, emerge con la costruzione dei campi, con le durate delle inquadrature, la decostruzione dei gesti.

Quello che insiste nel film è il modo di guardare di Carmela, il suo modo di camminare, di fumare, di serrare le labbra e di mordersele, di aggrottare le ciglia, la profonda malinconia dei suoi occhi neri. E insieme la stessa attitudine, la medesima attenzione, il film la dedica all’agglomerato urbano: quella zona antica e popolare di Napoli che è Porta Capuana, incrocio di umanità, che Sannino aveva già filmato in uno straordinario documentario, così come quella periferica di Portici (che all’epoca borbonica fioriva di sontuose ville settecentesche e che oggi è immersa nel degrado). Ne risulta la topografia di una doppia anima che si interseca: quella della condizione urbana e quella della condizione femminile.

Sannino si riaggancia direttamente al modo neorealista di filmare, senza le mediazioni e i “vezzi” di tanto cinema italiano contemporaneo. Non c’è soluzione di continuità tra l’esperienza di “cinema del reale” da cui Sannino proviene e il riattingere al clima del cinema italiano degli anni ‘40 e ‘50, laddove realismo e melodramma si accompagnavano in una stretta stilistica inconfondibile. Carmela ricorda i personaggi femminili intensi e forti di De Santis (Un marito per Anna Zaccheo, 1953), di Pietrangeli (Adua e le compagne, 1960), e il rapporto complesso, a tratti morboso con Maria, rimanda a un film come Bellissima (1951) di Visconti. Sono certo modelli alti, ma dalla sincerità e dall’afflato con cui Sannino li persegue emerge una sincera passione, senza infingimenti, per quel cinema.

Il film, come quella radice neorealista, si basa sulla cifra dell’erranza e della veggenza. La durezza della vita quotidiana, dei suoi conflitti, della disperata ricerca di Carmela di stabilire tra sé e il mondo desolato e cinico che la circonda e in cui lei si dibatte, è filmata ponendosi accanto, scrutando, osservando, senza mai una insistenza sentimentalistica, con dialoghi secchi che arrivano diretti come una sferzata emotiva. Così gli spazi, quelle tonalità bianco-grigie dei cieli sfondati, delle strade, delle mura tufacee di Napoli, è come fossero la proiezione fisica dello stato d’animo di Carmela, da un lato della sua solitudine, dall’altro della caparbietà con cui lei resta in piedi, sospinta da una profonda pulsione a non arrendersi (“Non mi posso fermare, io devo continuare”, dice di se stessa).

Questo incedere della potenza del femminile che la caratterizza ne accentua tanto la solitudine quanto la forza, tanto la durezza, quanto la luminosità e la tenerezza. L’accordarsi e il disaccordarsi di ciò con il paesaggio urbano richiama, ad esempio, i personaggi femminili del primo Piscicelli (Le occasioni di Rosa, 1981). Ma se in quel caso il riferimento era fassbinderiano, qui si pensa all’intercessione filmica del modo di girare dei Dardenne, a quel “non mollare” la presa rispetto ai comportamenti del personaggio. Con la differenza di un modo di usare la macchina da presa che si incide piuttosto nella fissità del campo e nel suo prolungarsi e affastellarne la tensione. Come quando, di notte, da sola Carmela si aggira nella cucina buia, addentando rabbiosamente un panino in una lunga, silenziosa, sequenza – ci torna in mente la sequenza della cameriera in cucina che dà la caccia alle formiche in Umberto D. (1952) di De Sica. Oppure come quando Carmela seduta su una panchina si avvicina a Maria chiusa nel suo silenzio e improvvisamente le dà un bacio. O ancora come quando Carmela ottiene il permesso di restare nella stanza vuota di Maria nella casa famiglia dove la figlia è stata reclusa, e prende a rassettarne gli abitini, ad aspirare l’odore del suo pigiamino.

La divaricazione tra le inquadrature frontali e quelle di spalle, gli sguardi insistiti verso un fuori campo indefinito come il futuro di Carmela, l’indugiare sui volti persi in un vuoto inattingibile, sono il segno del perdurare empatico dell’osservazione di Sannino lungo una linea che si affida soltanto all’ascolto dei comportamenti, alle atmosfere dello scambio di sguardi, da vicino come da lontano. Il finale del film ne è il suggello. Di notte Carmela si arrampica sull’impalcatura di un palazzo puntellato di fronte alla casa famiglia dove abita Maria e si siede a spiarla, mentre la piccola, come se avesse sentito quella presenza, prima di mettersi a dormire si avvicina alla finestra guardando fuori nel buio. E in quel buio, sul volto di Carmela, per la prima volta, scorrono lievemente le lacrime che piano piano si traducono in un sorriso. E  le parole di una struggente canzone di Sergio Bruni, Carmela, che hanno ispirato il titolo film assumono qui tutto il loro senso:

Stu’ vico niro nun fernesce maje
E pur ‘o sole passa, e se ne fuje
Ma tu staje lla’ tu rosa preta e stella
Carmela, Carme’.

Scriveva Simone Weil: «Non sono io. Non sono io ad essere qui, in questo punto dello spazio. È questo mio corpo, gioioso e dolente, intermediario tra il mondo intero e la mia anima». Non si dimentica facilmente questa immagine: il corpo di Carmela nel suo restare, resistere in quella notte dell’anima.

Riferimenti bibliografici
A. Cotugno, Due in una, Meltemi, Roma 1999.
S. Weil, Quaderni, Adelphi, Milano 1982-1983.

Rosa pietra stella. Regia: Marcello Sannino; sceneggiatura: Marcello Sannino, Giorgio Caruso, Guido Lombardi, Massimiliano Virgilio; montaggio: Giogiò Franchini; interpreti: Ivana Lotito, Ludovica Nasti, Fabrizio rongione, Imma Piro; produzione: Parallelo 41, Bronx Film, PFA Films; origine: Italia; anno: 2020; durata: 94′.

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