Le luci si accendono, siamo in diretta! All’interno di uno studio televisivo assistiamo alla presentazione di un programma sulla creazione di un’opera teatrale dal titolo Asteroid City. Il presentatore (Bryan Cranston) avvisa gli spettatori: “Asteroid City non esiste. È un’opera di fantasia creata espressamente per questa trasmissione”. La produzione di questa pièce, inserita come livello narrativo nel film (che a sua volta, non sarà altro che la messa in scena della stessa pièce), introduce un intricato setting metafilmico, attraverso il quale il regista ragionerà sulla rappresentazione in generale, sul suo cinema, ma soprattutto sul presente.
È la presentazione del vasto cast, fin dalle prime sequenze, a diramarsi come un preciso riferimento metafilmico alla famiglia andersoniana: se dai suoi primi lungometraggi Anderson sceglie ritualmente i suoi attori, dando loro ruoli sempre simili, in questo caso i suoi attori, avranno un doppio ruolo, interpretando degli attori che, a loro volta, interpretano i personaggi della pièce.
I tre livelli del racconto (quello della trasmissione televisiva, del processo creativo e della messa in scena), differenziati dal bianco e nero e dalle tinte pastello, si mescolano tra di loro, contenendosi l’un l’altro: la loro porosità diviene evidente nella scena in cui il presentatore si ritrova nella cittadina di Asteroid City, scusandosi educatamente perché non dovrebbe essere in questa scena. Oppure, nella frase che il personaggio interpretato da Jason Schwartzman pronuncia riferendosi alla moglie che non fa più parte del cast della pièce (“Oh, sei tu. La moglie che interpretava la mia attrice”): se inizialmente può quasi sembrare che l’attore si sia confuso, in realtà, si tratta di una battuta determinante affinché si possa comprendere la struttura filmica in bilico tra finzione e metanarrazione.
Dunque, attraverso una stratificata struttura narrativa, sviluppata su tre alternati livelli del racconto, Asteroid City sfrutta lo sforzo collettivo della narrazione teatrale per riflettere sul rapporto tra l’attore e il suo personaggio, non dimenticando né il drammaturgo, né lo spettatore.
Infatti, come nelle pièce teatrali allestite da Max in Rushmore (1998), nei drammi teatrali di Margot nei Tenenbaum (2001) e nelle prime sequenze di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) ambientate nel teatro italiano di Loquasto, la teatralità non si afferma solo come una scelta stilistica, ma come un dispositivo abile nel creare il punto di vista dello spettatore: evitando di perdersi nella preponderanza visiva della scene e nei vari livelli del racconto, lo spettatore si riconosce come il suo soggetto e il suo produttore di senso.
A catapultarci direttamente all’interno della pièce non può che essere un treno che, trasportandoci in una fittizia città nel sud-ovest degli Stati Uniti, ci consegna la possibilità di perlustrare ampiamente il set: una tavola calda, un motel su un campo automobilistico, una stazione di servizio, ma soprattutto una rampa chiusa indefinitamente. La rampa, che ritornerà più volte nel corso della narrazione, esplicita lo status dell’undicesimo film di Anderson: si tratta di un’opera volontariamente incompiuta, sospesa e, per questo, difficile alla comprensione. Sono gli stessi personaggi a dichiarare: “Continuo a non capire quest’opera”, ricevendo come risposta dal regista (Adrien Brody) “Non importa. Continua a raccontare la storia”.
Che storia stiamo ascoltando? Cosa vuole dirci? Se di primo acchito, sembrerebbe non abbia niente da dire, se non riproporre la chiusura nell’asettico immaginario andersoniano, probabilmente, Anderson ci sta chiedendo di continuare ad ascoltare, sperando in un nostro risveglio. Infatti, la composizione anestetizzante della forma (le carrellate laterali, le panoramiche a schiaffo, l’utilizzo dello zoom e del grandangolo, la simmetria nelle inquadrature, l’utilizzo creativo dei colori e della loro saturazione) sono funzionali alla creazione di un immaginario sicuro, familiare, ma non meramente estetico.
“You can’t wake up if you dont fall asleep”, ripetono in coro tutti gli attori/personaggi, risvegliandosi da uno stato di sonno quasi ipnotico: Anderson, mimando la condizione della ricezione spettatoriale, che a partire da Christian Metz viene associata al sonnambulismo e allo stato di sonno, tenta di scuotere i suoi attori, risvegliando anche i suoi spettatori. Addormentati serenamente in uno stile riconoscibile, ci risvegliamo formando un nostro punto di vista sul mondo, che non è solo estetico, ma profondamente etico. Come sosteneva Pietro Masciullo già nel 2014, «il suo cinema ha qualcosa da dire molto oltre la spudorata superficialità delle composizioni, un qualcosa di oltre intimamente connesso con il mondo che noi oggi esperiamo e con la riproducibilità bioestetica delle immagini che costantemente guardiamo» (p. 10).
Dunque, Asteroid City non rinuncia ad essere un film sulla contemporaneità, affrontando precise questioni esistenziali, politiche e sociali: le continue esplosioni nuclerari, i contatti con forme di vita extraterrestre, la quarantena e la pressione delle autorità militari, la morte prematura della mamma e, soprattutto, la collettività che si riunisce per assistere ad eventi come la premiazione dei giovani scienziati. Infatti, l’importanza dell’unione collettiva, nel senso meno ampio della famiglia (nei Tenenbaum) o in quello più ampio (ne Fantastic Mr. Fox, 2009; L’isola dei cani, 2018; The French Dispatch, 2021), è imprescindibile nei film di Wes Anderson: i personaggi sono sempre legati ad una comunità, trovando il loro significato solo nella comunione con gli altri. Che sia in forma di difesa o in forma di conflitto, «emerge sempre l’idea della famiglia e del cinema come grande comunità disfunzionale, che, proprio per le sue anormalità, è in grado di accogliere e integrare, seppur a fatica, gli elementi più eccezionali» (Spiniello 2014, p. 103).
In conclusione, con lucido spirito critico, Anderson riesce a trasfigurare le crisi sociopolitiche contemporanee, decontestualizzandole e consegnandole allo spettatore attraverso un nuovo sguardo: come afferma Philip Conklin, riferendosi a Grand Budapest Hotel (2014), «il film di Anderson non evoca un periodo nel tempo, ma crea una versione artificiale di un periodo nel tempo» (Conklin 2014).
Riferimenti bibliografici
P. Conklin, Frames of reference: The Grand Budapest Hotel and the world of Wes Anderson, in “The Periphery magazine”, 2014.
P. Masciullo, Il mondo ha bisogno di sognatori, in Wes Anderson Moonrise cinema, a cura di Pietro Masciullo, goWare, Roma 2014.
A. Spiniello, The Grand Budapest Hotel, in Wes Anderson Moonrise cinema, a cura di Pietro Masciullo, goWare, Roma 2014.
Asteroid City. Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson; fotografia: Robert Yeoman; montaggio: Barney Pilling; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Edward Norton, Tilda Swinton; produzione: American Empirical Pictures; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 104’; anno: 2023.