“Io mordo… non so perché”.
La malinconica confessione del cane randagio Chief, sussurrata allo spettatore in primissimo piano, rintraccia istantaneamente una rara coerenza di sguardo nel panorama del cinema contemporaneo. Wes Anderson – insieme ai fidati sceneggiatori Roman Coppola e Jason Schwartzman – riparte dalla sua amata stop (e)motion aggiungendo un altro tassello al puzzle immaginario che dall’ormai lontano Un colpo da dilettanti (1996) sta lentamente costruendo. Ma se per le volpi di Fantastic Mr. Fox (2009) la lotta per la sopravvivenza contemplava ancora istituzioni sociali da difendere (la comunità, la famiglia) o improvvise epifanie visive da anelare (il lupo nero, le montagne/schermo bianco), in questo L’isola dei cani veniamo pericolosamente catapultati vent’anni nel futuro.
Nel 2037 il paesaggio fisico è diventato post-apocalittico e il panorama politico è mutato in una distopia tirannica: siamo in Giappone, nella fantastica Megasaki City, dove i diritti civili si stanno sgretolando sotto lo strumentale ricatto di false emergenze. Tutti i cani, indistintamente, sono accusati dal Partito egemone di essere gli untori di una terribile influenza e quindi confinati in un’isola-prigione che ne prefigura il possibile genocidio. E allora la menzognera propaganda del tiranno Kobayashi ci viene restituita in inquadrature che configurano wellesianamente il (Quarto) potere che ordina un nuovo panorama mediale; mentre la testimonianza della Storia resta confinata nel clandestino racconto di un’antica civiltà canina che riecheggia le lotte shakespeariane di Ran (1985) di Kurosawa.
Eccoci al punto: la straordinarietà di quest’isola dei cani risiede proprio nello scarto brusco tra il trauma esibito nelle catastrofi prodotte dall’uomo – le macerie e i rifiuti che colonizzano il profilmico schiudono gli spettri atomici del post Fukushima – e la naïveté di pupazzi mossi “a passo uno” che recuperano le potenze formali delle favole illustrate. Una ricchissima tavolozza di input culturali che viene prima innervata da uno sguardo politico sulle cose e poi messa a servizio di una semplice storia della buonanotte: un bambino (Atari Kobayashi) fugge da Megasaki City e dal controllo del potentissimo zio per cercare il suo cane esiliato (Spot) che ricorda come l’unico vero amico.
Il cinema di Wes Anderson, allora, può ancora permettersi i proverbiali movimenti ortogonali della macchina da presa o la geometrica gestione di tempi (la scacchiera di flashback e flashforward) e spazi (con strutture significanti tra le tavole di Piranesi e i film di Kubrick) in quest’ennesima e curatissima architettura visiva. Proprio perché l’alterità di sguardo è garantita dalle pieghe di ogni singola immagine che ci fa percepire quest’isola come un luogo familiare eppure incredibilmente perturbante. Con le notissime voci di attori del calibro di Bryan Cranston, Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Greta Gerwig, Frances McDormand, Scarlett Johansson, Harvey Keitel, Tilda Swinton, Ken Watanabe, Liev Schreiber, Anjelica Huston, ecc… che fanno percepire l’eco del glamour hollywoodiano confinato anch’esso in una trash island. Aprendo nuovi livelli di senso: la straniante decisione di rendere l’inglese una lingua canina, lasciando gli umani comunicare nella loro lingua natia (il giapponese), potenzia gli scarti di una radicale lost in traslation che delega al valore delle espressioni e dei gesti l’affezione prima che disperatamente si cerca.
Ma c’è ancora dell’altro. Wes Anderson – nel suo secondo film interamente realizzato in stop motion – riesce ad aprire con vertiginosa efficacia fertili spazi di riflessione tra l’origine del medium (le decorazioni tradizionali giapponesi in due dimensioni, il fenachistoscopio della cagnolina giocoliera) e la digitalizzazione dei processi (l’esercito di droni, la proliferazione degli schermi metropolitani che parcellizzano gli sguardi). Proprio perché tra la matericità dei pupazzi e la grafica 3D che ne facilita i movimenti balena un ulteriore livello (teorico) di riflessione aperto su questa nuova immagine che non può prescindere dalle “macerie” del passato. Il set fisico – con le mani degli animatori che in fuori campo muovono frame-by-frame i modellini – viene innestato dalla computer grafica che estende i paesaggi, rende più credibili i dettagli e crea nuovi possibili spazi per l’immaginazione.
E allora: se le tavole dipinte ad acquerello configurano il passato remoto del Giappone, ogni traccia dei media tradizionali novecenteschi (cinema e tv) è restituita in animazione 2D in bianco e nero. Vari statuti dell’immagine si confrontano in una dialettica intermediale che prefigura la riflessione (biopolitica) sull’immagine presente: si passa da un regime di sguardo panottico a Megasaki City (il potere di Kobayashi che ci scruta dall’alto) a regimi di sguardo post-panottici nell’isola dei rifiuti (i dispositivi di controllo e la visualità dronistica oggettificano la miriade di sguardi virali che danno la caccia ai cani), interfacciando la memoria del dispositivo e dei suoi stili codificati (da Kurosawa a Welles sino all’avanguardia di Jan Švankmajer) con le pericolose derive di una tecnocrazia imperante.
Insomma: questa difficile geolocalizzazione di corpi e sentimenti riesce ancora ad inabissare (come sempre in Wes Anderson) gli spazi preordinati dalle storie e dalle inquadrature. La visione utopica dei suoi folli personaggi – vera traccia autoriale che unisce l’intera filmografia – sfida la dimensione distopica delle gabbie del potere – tra le macerie del profilmico e la programmazione certosina del filmico – restituendoci infine un sentimento ferino (io mordo…) e nel contempo candido (…ma non so perché). Ecco che dai colorati pittogrammi del passato alla spettrale matte painting del futuro, Wes Anderson trova ancora il modo di mediare le potenze rigeneranti dell’ultimo movimento possibile: quello emotivo.