La redazione del magazine The French Dispatch è una delle comunità sostitutive o integrative della famiglia attorno a cui spesso ruotano i film di Wes Anderson. Il direttore è come un padre severo ma in fondo devoto a tutti i collaboratori-figli, che all’inizio del film si ritrovano orfani e senza alcuna prospettiva, dal momento che il padre-padrone ha disposto che, in caso di morte, la rivista cesserà le attività e verrà letteralmente smantellata. “Après moi, le déluge!”, sosteneva Marx, non è soltanto una frase attribuita a Luigi XV, ma è “la parola d’ordine di ogni capitalista”, e ben si adatta al direttore del raffinato magazine il cui ultimo numero fa da sceneggiatura al film.
Quattro articoli di estensione differente (la giornata di un ciclista, la vita di un pittore in prigione, i giorni caldi della lotta studentesca, la disavventura del figlio di un commissario di polizia) sono il commiato dagli affezionati lettori ed esaltano il contributo creativo dei singoli narratori al progetto unitario della rivista. Il film riafferma dunque per l’ennesima volta la tendenza di Wes Anderson a costruire «parabole teoriche sulla nozione di autorialità collettiva», nonostante egli abbia veicolato un’immagine di sé del tutto conforme alla declinazione individuale dell’autorialità stessa, come sosteneva Devin Orgeron su Cinema Journal ai tempi del film Il treno per Darjeeling (2007).
In tal senso, The French Dispatch mette in scena la morte di un creativo che ha lavorato mettendo insieme i migliori talenti della scrittura; ed è proprio quanto lo stesso Wes Anderson fa con i talenti del cinema, sue creature e collaboratori storici come lo scenografo Adam Stockhausen o straordinari artisti che preesistono ampiamente al suo cinema, come Milena Canonero, e soprattutto la grande famiglia degli attori ricorrenti (Bill Murray, Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Edward Norton, Bob Balaban, Adrien Brody, Tilda Swinton, Owen Wilson e Anjelica Houston, qui voce narrante). Ne viene fuori un film da leggere e sfogliare, un film nato da tre intenzioni differenti: quella assolutamente astratta di girare un film a episodi, formato che attrae il regista a partire dalla passione per L’oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica e Il piacere (1952) di Max Ophüls; quella di fare un film sul più blasonato magazine statunitense, il New Yorker, di cui è lettore e collezionista fin dai tempi della scuola; e infine quella di girare qualcosa in Francia, dove vive da tempo.
Il film non ha una temporalità definita, gli unici eventi autenticamente databili sono quelli relativi al maggio francese, nell’episodio ispirato al celebre reportage di Mavis Gallant (qui interpretata da Frances McDormand), quello in cui, stando a contatto con gli studenti del ’68, la scrittrice affermava: «Stiamo vivendo nel futuro, dentro qualcosa che non è ancora accaduto». Alla stessa dimensione immaginaria appartiene lo spazio della città di Ennui-sur-Blasé, ironica trasfigurazione di Angoulême, sintesi urbana di una certa idea della Francia.
A incanalare il potente flusso di questo spazio-tempo immaginario interviene, come di consueto, una messa in scena che irrigidisce i bordi del quadro per consentire un lavoro meticoloso di composizione interna organizzata per assi di simmetria, con disposizione speculare di corpi e oggetti; con un campo visivo tanto bloccato, i movimenti di scena sono definiti al millimetro e gli attori stessi diventano oggetti: ciò è molto evidente nell’episodio del pittore carcerato, quando gli zii del finanziatore (Harry Winkler e Bob Balaban) si allineano al margine dell’inquadratura, non per necessità storiche ma appunto discorsive, stilistiche.
Questa qualità centripeta e organizzata dell’immagine è enfatizzata dalla scelta del formato Academy, che limita ancora di più il campo e consente alla regia di bilanciare perfettamente tutti gli elementi compositivi. Suono e colore si conformano parte di questo sistema normativo, con Alexandre Desplat a incastonare piccole miniature musicali e Robert Yeoman ad alternare colore e bianco e nero (il tutto in pellicola 35mm, girato con la Arricam) a uno schiocco di dita. La messa in scena interviene non soltanto sullo spazio ma anche sul tempo, che per il regista è essenzialmente tempo dell’appuntamento tra i movimenti di scena, dunque sincronia, che insieme al complemento spaziale della simmetria contribuisce alla solida architettura del film.
Talvolta, a sottolineare che non c’è cinema senza regia così come non c’è rivista senza direttore, Wes Anderson blocca lo svolgimento dell’azione sul set ma non il movimento della macchina da presa, che in questa idea di cinema è l’unico motivo per cui le persone e le cose hanno una ragione d’essere.
Riferimenti bibliografici
M. Gallant, The Events in May: A Paris Notebook – II, “The New Yorker”, 21 settembre 1968.
S. Morrison, How Wes Anderson turned The New Yorker into The French Dispatch, “The New Yorker”, 5 settembre 2021.
D. Orgeron, La Camera-Crayola: Authorship Comes of Age in the Cinema of Wes Anderson, “Cinema Journal”, vol. 46, n. 2, inverno 2007.
The French Dispatch. Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson; montaggio: Andrew Weisblum; scenografia: Robert D. Yeoman; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: Benicio del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudri, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Stephen Park, Bill Murray, Owen Wilson; produzione: Searchlight Pictures, American Empirical Pictures, Indian Paintbruch, Studio Babelsberg; distribuzione: Searchlight Pictures, Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: USA, Germania; durata: 108’; anno: 2021.