Sfida infernale (Ford, 1946)

Se è vero che il modo d’essere di ogni identità, sia individuo che nazione, si rivela nel “mezzo” e non all’inizio, possiamo senz’altro dire che gli Stati Uniti d’America non sono tanto la loro nascita, con la Rivoluzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, quanto l’epopea del West e della Frontiera. E il cinema e l’immaginario mondiale, e dunque non solo americano, da questa epopea sono stati segnati. E il western dell’epopea americana è stato la massima incarnazione. E anche se nato con la grande narrativa dell’Ottocento (che va molto oltre i dime novels), è con il cinema che il western assume la potenza maggiore.

Dunque, ha ragione Bazin quando dice che il western è «il cinema americano per eccellenza». E se John Ford è a sua volta il regista per eccellenza del western, significa di conseguenza che è il vero grande cantore cinematografico dell’America. Se David W. Griffith ha narrato la nascita dell’America (Nascita di una nazione, 1915) e Clint Eastwood il suo crepuscolo (Gli spietati, 1992), Ford ne ha narrato la piena e complessa maturità.

L’America della frontiera, quella che dal New England si è spostata progressivamente verso l’Ovest delle pianure e delle grandi praterie, fino alla California. I pionieri che muovendosi verso Ovest incarnavano il “Manifest Destiny” di una nazione, che non stava nella East Coast (frontiera europea, non americana) ma nel movimento verso deserti e vallate, dove si realizzava il grande “modello individualistico” su cui si instaurava la società americana: «The frontier is productive of individualism […] The tendency is anti-social» (Turner 2010, p. 30). Ma il West non è storia, è mitologia, trasfigurazione mitica in cui l’uomo, esploratore e pioniere, misurandosi con wilderness ed alterità (l’indiano), e sposando la rudezza di questo confronto, ritrova l’esistenza come avanzamento e conquista di un destino individuale e collettivo.

John Ford ci ha riconsegnato nei suoi western tale destino in tutti i suoi aspetti, quelli che vanno dalla piccola comunità in movimento, minacciata dal nemico esterno, di Ombre rosse (Stagecoach, 1937), alle figure leggendarie di Wyatt Earp e Doc Holliday di Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946) – il primo, tra l’altro, incontrato dallo stesso Ford negli anni giovanili: è il farsi leggenda di un presente prossimo –, allo spostamento verso la terra promessa di una ampia comunità, La carovana dei mormoni (Wagon Master, 1950), al periplo tragico dell’uomo solo di Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), fino al crepuscolare passaggio d’epoca de L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962). Quello che emerge in questi film di potente splendore è l’intreccio indissolubile tra il western e l’America. 

Ma partiamo da un problema. Il western non è un vero genere. Un genere individua i tratti comuni di opere singolari, e questi tratti definiscono una forma capace poi di distinguersi nei diversi testi. Ma questa forma per essere tale deve incarnare una struttura di fondo, anche tematica, identificativa del genere stesso: movimento comunitario nell’epica, dove l’eroe rappresenta la comunità, micro-dinamiche sociali nella commedia, che per essere tale presuppone un happy end, precipitazione individuale e passione soggettiva nella tragedia, che per confermarsi tale non deve finire bene.

Il western non è niente di tutto questo. In definitiva chiamiamo western un film (o un romanzo, o una serie) con una specifica ambientazione e una determinata collocazione spazio-temporale: grandi praterie, deserti, vallate, ma anche cavalli, pistole, cowboy, tutto ciò che pertiene all’Ottocento americano non urbanizzato. 

Ma di fatto tale definizione sembra individuare una dimensione puramente immaginaria, perché un’ambientazione è solo un contenitore potenziale di storie e di generi diversi. Saranno queste storie, i personaggi e le loro modalità d’azione, a definire la specifica connotazione generica di un film western: western epico e western tragico in primis, ma anche melodrammatico, romanzesco ecc.

John Ford ha saputo declinare in tutti i modi possibili il western: dal puro racconto epico di una comunità, perfino senza eroi, come in La carovana dei mormoni, ad una struttura totalmente tragica come Sentieri Selvaggi, dove il silenzio dell’eroe rispetto al proprio passato e al proprio futuro lo fa precipitare in una chiusura radicale nei confronti del mondo, in cui l’altro (l’indiano) diventa la traccia da dover ossessivamente cancellare, ad una struttura prosaica, L’uomo che uccise Liberty Valance, sviluppata negli spazi piccoli di una cittadina senza più vallate, dove il tema – e dunque anche la struttura – è tipicamente romanzesco: il passare del tempo, il passaggio dalla wilderness alla civiltà, il tutto ripercorso (e non a caso) con lo sguardo all’indietro del flashback.

C’è molta distanza tra il sogno americano di una comunità in movimento verso Ovest, La carovana dei mormoni, che diviene nel suo percorso una comunità di incontro, minacciata ma anche difesa dai suoi eroi anonimi, fino al felice approdo alla terra promessa, e i peripli solitari, e alimentati dall’odio verso gli indiani, dell’Ethan (John Wayne) di Sentieri selvaggi, che torna e riparte, in assenza di ogni sentimento comunitario. 

Li chiamiamo entrambi western perché hanno una stessa ambientazione geografica e storica, ma nel primo caso abbiamo l’epica, nel secondo la tragedia. Ma resta una domanda: perché il West, la Frontiera, le grandi praterie, che si traducono in un immaginario potente e pervasivo, ma anche perimetrato spazialmente e temporalmente, sono così universali da riguardare lo spettatore mondiale, ben oltre quello americano?

La risposta qui possiamo solo accennarla, ma fatto sta che se quella ambientazione può contenere più storie, se quell’immaginario è così pervasivo è perché vediamo letteralmente all’opera nell’epopea della conquista dell’Ovest, l’instaurarsi – anche violento – di una civiltà, in cui vengono a sovrapporsi e a coesistere temporalità e pratiche diverse (Tailleur 1993, p. 22), appartenenti ad epoche differenti dell’umanità: esploratori, pionieri, mercanti, cacciatori, allevatori, agricoltori, e poi cavalieri, banditi, cavalleria, ed ancora individui soli, piccole comunità familiari, grandi comunità religiose, ed ancora cavalli selvaggi, mandrie, castori, e soprattutto gli indiani, l’alterità primitiva dalla quale è impossibile fuggire per quanto si faccia di tutto per schiacciarla (è il grande tema di Sentieri selvaggi), e la ferrovia, immagine di avanzamento di civiltà onnipresente nei western, anche in quel grande melodramma travestito da western che è Johnny Guitar di Nicholas Ray.

Nel western c’è in gioco soprattutto il rapporto tra wilderness e civiltà. E quello che ci raccontano il western e il suo paesaggio è che questo rapporto non può essere risolto una volta per tutte, perché non solo è stato fondativo, ma è anche capace di alimentare di continuo la civiltà stessa, che cresce e si rinnova solo in questo costante rapporto con il suo “fuori” selvaggio. Per questo il western non è un genere, ma l’immaginario universale di instaurazione della civiltà umana.

Se è vero che John Ford – lo ha ricordato su queste pagine Giaime Alonge – è stato premiato per altri film che non sono western, è vero che sono soprattutto i suoi western a restare, perché in quei western c’è tutta l’America, e in quell’America si riassume l’intera civiltà umana.

Riferimenti bibliografici
R. Tailleur, L’Ouest et ses miroirs, in Le Western, a cura di R. Bellour, Gallimard, Parigi 1993.
F.J. Turner, The Frontier in American History, Dover, New York 2010.

John Ford, Cape Elizabeth 1894 – Palm Desert 1973.

Tags     john ford, western
Share