Quasi vent’anni fa, nella primavera del 2004, sono stato visiting professor alla University of Chicago. Durante quel soggiorno, una sera partecipai a una cena ufficiale con docenti di diversi dipartimenti e a un certo punto, come capita spesso a chi appartiene ai Film Studies, qualcuno mi domandò quale fosse il mio film preferito. Risposi d’istinto, senza esitazione: Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956). Mentre il titolo del capolavoro di John Ford mi usciva delle labbra, mi sentivo contento, perché immaginavo che ai miei ospiti americani avrebbe fatto piacere sentire che il collega italiano amava il loro cinema. Non avrei potuto commettere un errore più grave. Sulla tavola calò un silenzio imbarazzato. Probabilmente, se avessi detto: Gola profonda (Deep Throat, 1972), l’avrebbero presa meglio. Dopo alcuni istanti di smarrimento, un professore di letteratura greca mi disse: «Ma quello è un film razzista». Provai a spiegare che non era così, che la presenza di John Wayne nel cast non era sufficiente a farne un’opera reazionaria, e anzi, scavando nel sottotesto, si poteva verificare che si trattava dell’esatto opposto, di un film che esalta l’ideale del melting pot. I miei sforzi risultarono del tutto vani. Il professore di greco continuava a fissarmi come un pericoloso provocatore. Se la polemica non proseguì, fu solo per cortesia.

Esaurire il senso di Sentieri selvaggi, “spiegarne il significato”, in un veloce scambio di battute durante una cena non è possibile. Un film di quella densità richiede tempo, oltre che un po’ di apertura mentale. Ma in fondo, dimostrare al professore di letteratura greca che il film di Ford non è razzista, a rigore, non sarebbe neppure stato necessario. Non avrei avuto alcun bisogno di “giustificarmi”. Se anche Sentieri selvaggi fosse davvero razzista, cosa che non è (basti dire che i set di Ford erano tra i pochissimi, nel periodo classico, dove le comparse dalla pelle scura venivano retribuite allo stesso modo di quelle bianche), avremmo comunque il diritto di definirlo un capolavoro. Sentieri selvaggi è un film del 1956, non si può pretendere che i suoi personaggi rispondano agli standard etico-politici odierni. Il problema è che molti, nei dipartimenti umanistici americani, pensano proprio questo. Pensano che se un film (o un romanzo o qualunque altro tipo di testo) presenta un punto di vista sulla vita e sul mondo diverso da quello dello studente-spettatore, il professore non glielo deve far vedere, per evitare di “turbare” gli allievi. Il fenomeno è tutt’altro che recente. Non lo era neppure nel 2004, quando ero visiting professor a Chicago. Le cosiddette culture wars sono partite nei primi anni Ottanta. Proprio nel 1982, quando il narratore ha 19 anni ed è una matricola al college, inizia il bellissimo racconto di Jonathan Lethem In difesa di Sentieri selvaggi. Scene da un’ossessione (2022, pp. 117-137), tutto incentrato sul tentativo fallimentare del protagonista di convincere amici e compagni di università che Sentieri selvaggi non solo non è razzista, ma è anche una grande opera d’arte, un film «ricchissimo, portentoso […] una ruvida fetta di un non so che americano» (pp. 120, 132). 

Oggi, in America, dentro e fuori l’università, parlare e scrivere di Ford è di sicuro ancora più difficile di quanto fosse negli anni ottanta. Non per niente, tra i contributi più recenti e interessanti su Ford, spicca un volume in francese uscito presso un editore svizzero: John Ford. Histoire, image et politique, a cura di Natacha Pfeiffer e Laurent Van Eynde, un libro che programmaticamente non si pone il problema del supposto razzismo o sessismo di Ford (su questa seconda accusa, altrettanto discutibile, si veda il magistrale saggio di Gaylin Studlar, nel volume da lei curato, insieme a Matthew Bernstein, John Ford Made Westerns), e prova invece a lavorare sui film di Ford da prospettive nuove (penso in particolare al contributo dedicato al rapporto tra Ford e la sceneggiatura). La “cancellazione” di Ford dal canone americano comincia, appunto, con l’avvio delle culture wars. Negli anni settanta, Ford era visto in America come un nome dal quale non si poteva prescindere. Quando l’American Film Institute istituisce il Life Achievement Award, il primo regista cui viene attribuito il premio è, “inevitabilmente”, John Ford, che lo ritira (insieme alla Medal of Freedom, che gli mette al collo il presidente Nixon), nel febbraio del 1973, pochi mesi prima di morire (su YouTube si trova la registrazione della cerimonia).

Il cinema di Ford, di cui quest’estate ricorre il cinquantenario della morte, avvenuta il 31 agosto del 1973, va al di là, anche in termini banalmente quantitativi (parliamo di una filmografia di quasi centoquaranta titoli, tra fiction e documentari, corti e lungometraggi, produzioni cinematografiche e televisive), di qualunque moda culturale. Si tratta di un corpus che non è possibile dominare per intero, non solo perché appunto i titoli sono tantissimi, ma anche perché alcuni – una parte consistente di quelli del periodo muto – sono perduti, e qualcuno di quelli sonori, a partire da Sentieri selvaggi, per molti versi il film più importante di Ford, è stato realizzato in un formato oggi desueto, come il VistaVision (della straordinaria potenza visiva di Sentieri selvaggi in sala, nel 1956, parla Martin Scorsese in una testimonianza molto interessante).

Luc Moullet ha scritto che, quando ci si confronta con Ford, la prima impressone è quella dell’immensità. È difficile, dice il critico e cineasta francese, scrivere di qualcosa che «vous dépasse» (Le coulé de l’amiral, in Patrice Rollet e Nicolas Saada, 1990), qualcosa che ci “scavalca”. Quella di Ford è un’opera nel senso più profondo del termine, una rete di testi dove, da un film all’altro, anche a distanza di decenni, troviamo la stessa soluzione di montaggio, la stessa postura di un attore, la stessa composizione del quadro. Ed è un’opera assai più articolata di quanto la vulgata possa farci pensare. Oggi, Ford è ricordato soprattutto per i western. Era lui stesso a offrirsi sotto questa luce, a partire dalla sua famosa autopresentazione (in un’assemblea del sindacato dei registi, quando intervenne, in pieno maccartismo, per rintuzzare le accuse di filo-comunismo che erano state rivolte a Joseph Mankiewicz): “My name is John Ford. I make westerns”. Si tratta di un’affermazione volutamente anti-intellettualistica (e pertanto profondamente americana), e sottilmente polemica verso la logica dello studio system, dove i western erano considerati filmetti buoni per il botteghino, ma irrilevanti sul piano culturale.

Non è un caso che Ford abbia vinto quattro volte l’Oscar per la miglior regia, rispettivamente con Il traditore (The Informer, 1935), Furore (The Grapes of Wrath, 1940), Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley, 1941), Un uomo tranquillo (The Quiet Man, 1952), nessuno dei quali è un western. Certo, il western rappresenta senza dubbio il genere in cui Ford ha offerto il suo contributo più importante, diciamo tra Ombre rosse (Stagecoach, 1939) e L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962), ma ci sono “altri Ford”. Ne cito due, tra quelli che mi paiono meno noti in Italia. C’è il Ford “espressionista” dei tardi anni venti e del decennio successivo, quando si tiene lontano dal western (Ombre rosse è il suo primo western dopo quelli del periodo muto) ed è visto come un regista raffinato, che ha fatto propria la lezione luministica di Murnau, di cui è stato collega alla Fox. E c’è il Ford documentarista, che lavora in guerra, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, ma anche in Corea e Vietnam. L’opera di Ford è un continente vastissimo, che in alcuni parti conosciamo ancora in modo approssimativo, e proprio per questo non possiamo che continuare a esplorarlo.

Riferimenti bibliografici
M. Bernstein, G. Studlar, a cura di, John Ford Made Westerns, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2001.
J. Lethem, A ovest dell’inferno, Minimum Fax, Roma 2022.
N. Pfeiffer, L. Van Eynde, a cura di, John Ford. Histoire, image et politique, Infolio, Gollion 2021.
P. Rollet, N. Saada, a cura di, John Ford, Paris, Editions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, Paris 1990. 

John Ford, Cape Elizabeth 1894 – Palm Desert 1973.

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