Ogni genere ha una determinata estensione, nel senso che copre una certa “area” del contenuto e dell’espressione, così come ha dei limiti, dei confini, che lo separano da altri generi limitrofi o distanti. E sempre possibile tracciare una “mappa” dei generi, a patto che si tengano ben presenti i caratteri intrinseci e i tratti differenziali a ogni ordine e grado di “etichettatura” del genere in base ai suoi elementi tipici.

Ci si può chiedere se il genere sia qualcosa di molto “generale” o di molto “tipico”. Probabilmente, ogni genere è identificabile in base ai caratteri comuni a molte opere (base “generica” del genere), ma anche in base ai caratteri tipici di ogni singola opera (tipicità del genere). La nozione di tipo appare, dunque, come una specificazione della nozione di genere. Il “tipo” indica anche una serie di caratteristiche intermedie fra il genere e l’opera (fra il genere e un gruppo ristretto di opere che a esso si richiamano). Ci sono opere che “esemplificano” i caratteri generali di un genere, e ci sono opere che “esemplificano” i caratteri tipici di una determinata sottoclasse all’interno del genere.

La “commedia sofisticata” americana è un sottogenere della commedia contrassegnato da alcuni tratti tipici di “declinazione” del genere. E così il “western all’italiana”, che è un sottogenere del western caratterizzato da peculiari procedure di manipolazione del western: manierismo formale, ritratto carico dei personaggi, amplificazione — spesso in direzione parodistica — delle situazioni tipiche del western, esasperazione stilistica (tempi lunghi, eccesso di primi piani, violenza spettacolare, esagerazione nel ricorso alla narrazione per dettagli, con forte incremento della suspense). II tipico rappresenta una “iper-focalizzazione” dei caratteri ricorrenti del genere, così come la “varietà” rappresenta una “deviazione” dal tipico, fino alla commistione di generi e tipi diversi.

Il filone è, a sua volta, una “varietà” del genere e una sua falda interna costituita da elementi misti, derivati o da una iper-caratterizzazione di alcuni tratti del genere o dalla commistione di tratti provenienti da generi (e filoni) diversi. La “commedia di costume” è certamente una “varietà” della commedia, caratterizzata dall’accento posto su elementi tipici del comportamento e dei valori della società rappresentata; così come la slapstick comedy è un filone della commedia, caratterizzato da alcuni elementi di varia derivazione, come, per esempio, il circo e il music-hall. L’opera dei grandi autori spesso fa “genere a sé”, a causa di una declinazione personalissima di contenuti, linguaggi, forme tipiche di molteplice derivazione da forme generiche (casi esemplari: John Ford e Howard Hawks).

L’ibrido è una commistione di diversi generi e sottogeneri. E spesso costituito in base a caratteri più formali che di contenuto, di modo che si assiste a una consistente manipolazione stilistica dei tratti tipici di un genere o di un sottogenere. Ibridi sono E. T., Duel, Blade Runner, Cuore selvaggio, Divorzio all’italiana, i film di Godard, e, naturalmente Pulp Fiction.

Si possono “ibridare” generi e stili, modelli e filoni, forme e contenuti. Ogni volta che un determinato repertorio di contenuti viene espresso nelle forme di un altro repertorio, si ha una ibridazione stilistica; per esempio, il film di samurai “travestito” in film western, in maniera tale che la forma-western esprima i contenuti tipici della forma-samurai (caso paradigmatico: I magnifici sette). Ogni volta che un determinato repertorio di contenuti viene immesso in un genere caratterizzato da altri contenuti, si ha una ibridazione di sensi (caso tipico: Un dollaro d’onore, di Hawks, un vero e proprio dramma psicologico in costume western; oppure L’uomo che uccise Liberty Valance, di John Ford, dramma psicologico-sociale sul conflitto fra il singolo e la legge, in un West che deve cambiare; o, infine, più vicino a noi, Gli spietati, di Clint Eastwood, un film “nero”, che mette in discussione miti ed eroi del western, smontando dall’interno anche le “fonti” della memoria del genere basate su una produzione popolare di feuilleton e biografie romanzate).

II “travestimento” è una pratica di ibridazione che fa leva sulla deformazione dei contenuti di un genere e sulla immissione di stili e contenuti di un genere diverso. Il “travestimento” è di solito impiegato nella parodia per mettere in risalto i tratti tipici di un genere o di un filone, ricavandone un ibrido che trascende generi e filoni, o che addirittura aspira a scavare una nuova “falda” nei generi. Alcuni western sono “travestimenti” di altri generi, prima ancora che essere distorsioni del loro genere, come, ad esempio, Giù la testa di Sergio Leone, o Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, che sono per molti aspetti “travestimenti” dei film di guerra).

L’epoca del “travestimento” è anche l’epoca in cui il genere fa i conti con una intera tradizione, rivelandone le capacità di sopravvivenza o mettendone in luce l’agonia. Può anche sovrapporre a uno sfondo noto una cornice assolutamente estranea per novità tematica e stilistica, mettendo in rilievo la morte di un genere attraverso un impiego diverso del senso di morte.

Gli spietati di Clint Eastwood è un tipico esempio di “travestimento”: non è un western “tragico”, ma una tragedia “travestita” da western. Mostra come si facciano programmaticamente i conti con la tradizione, a cominciare dalle sue fonti e dalle sue ossature mitiche, che vengono messe a nudo e tematizzate come tali nella loro funzione di creazione e nutrizione della leggenda. Ma mostra anche come si può “travestire” un genere mediante elementi tonali e un senso generale che si rivela non solo insolito, ma per molti versi estraneo alla tradizione del genere e alle sue continue ristrutturazioni.

Negli Spietati il riferimento esplicito alle fonti leggendarie del West è costante: ogni fase della narrazione, ogni conflitto, ogni faccia a faccia si gioca sulla messa in questione del mito del pistolero, la cui fama non è più alimentata dalla voce che corre di bocca in bocca, di paese in paese, di regione in regione (come nei film di Anthony Mann, dove l’eroe è sempre “riconosciuto” per via del suo passato, della fama legata alle sue azioni che superano i confini “locali” e si diffondono come leggenda “certificata” dalla trasmissione orale). Negli Spietati la mitologia del West viene còlta nella fase in cui sta diventando una mitografia: agiografia edificata dalla scrittura, poi feuilleton, poi spettacolo (William Frederick Cody, ovvero Buffalo Bill, debutta con il suo Wild West Show il 17 maggio 1883 a Omaha, Nebraska). La mitografia viene costruita “a tavolino” con le biografie romanzate e falsificanti di redattori di fascicoli popolari: è il feuilleton del West. Il biografo è l’emblema del cinismo della nascente industria culturale; anche lui “spietato”, si contenta di vivere come un parassita, coltivando la violenza e trasformandola in leggenda. L’eroe, da parte sua, reagisce o con il silenzio dell’anonimato (si ritrae nell’ombra, scompare dal mondo), oppure con la “rettifica” violenta (è il caso di Little Bill, lo sceriffo, interpretato da Gene Hackman, che “scopre” sistematicamente” il “rovescio della medaglia”, denigrando i suoi rivali).

È questa leggenda non più “popolare”, ma creata come processo di “edificazione” del mito, che il film si appresta a smontare. In tal modo smonta il western come mito e come epopea, danneggiando in gran parte la leggenda (tiratori inesperti o ubriachi, pistole che fanno cilecca o esplodono in mano, aspiranti eroi che cercano di nascondere la loro miopia, l’alcool usato per superare la paura dello scontro). Destituisce di credito la leggenda, ma al tempo stesso crea una contro-leggenda di violenza e di morte, immergendo la vicenda in un clima nero e inondandola con una presenza del male che fa assumere al film una tonalità tragica. È la violenza nuda, l’impossibilità di vivere senza dare la morte; è la celebrazione della morte data senza altra motivazione che la necessità della morte, spesso per compiere un atto “memorabile”.

In questo senso, Gli spietati è la pietra tombale del western antieroico del declino. Il male è inevitabile e non si può né combattere né spiegare. La morte viene spesso accompagnata da una “riflessione sulla morte”, sia nel dialogo, sia nelle modalità che precisano la morte da dare, sia nell’isolare la fase della morte in un tempo dilatato che racconta le difficoltà dell’uccidere e il tempo lento della morte al lavoro misurato al millimetro. C’è una scena particolarmente “spietata” – e al tempo stesso umanissima, di una umanità quasi animale —, che mostra la “fatica della morte” con un découpage assolutamente originale. Quando William Manny (Clint Eastwood) uccide il primo dei cow-boys ai quali sta dando la caccia, assume interamente su di sé la necessità della morte da dare “per contratto”, e la scena viene costruita con una micidiale scansione e misurazione degli atti e dei tempi. Manny toglie il fucile all’amico Ned (che non ha più la forza di uccidere l’uomo che aveva ferito), sbaglia il primo colpo e chiede più volte quanti colpi gli restino per finire l’uomo; sbaglia ancora un colpo, mentre il ferito si trascina lentamente per trovare riparo dietro una roccia; infine lo colpisce mentre è quasi in salvo. Kid (il giovane aspirante pistolero miope, ideatore della spedizione) chiede se l’ha ucciso. Inquadratura dell’uomo colpito: sangue che se ne va, vita che se ne va. L’uomo chiede dell’acqua; Manny grida agli altri di dargliela, promettendo di non tirare. Una fatica immensa caratterizza questa scena, forse tra le più lunghe e dettagliate scene di morte del cinema. Difficilmente si può trovare una morte eseguita e rappresentata con tanta lentezza e difficoltà.

La violenza, la tortura e la morte sono le forze del male dispiegate, cui l’eroe non può opporre alcuna resistenza. L’aveva tentato una volta: aveva cercato di redimersi dall’alcool e dalla violenza con l’aiuto di una moglie virtuosa, ma il male stende di nuovo la sua ombra su di lui, e lo risucchia nel passato. È allora che comincia un conflitto interiore fra oblio e memoria, fra la fedeltà alla moglie morta e una nuova situazione che fa ripiombare l’eroe in una falda del passato che non si è mai richiusa e che lo inghiotte. Tornano i fantasmi del passato, come nel Macbeth, e vengono uccisi tutti, perché i superstiti sono la violenza che non smette di alimentare la violenza e la morte.

La violenza sembra essere il prodotto di una riduzione degli spazi aperti che avevano caratterizzato il western “classico”. Non ci sono più territori da conquistare, e lo spazio si contrae nella città e nella casa, ma questi focolari sono diventati un crogiolo di violenza: violenza della prostituzione (mercato di carne umana) protetta dalla violenza della legge, alla quale si aggiunge la violenza “personale”, la perversione di chi rappresenta la legge. Violenza su violenza, violenza aggiunta a violenza, violenza che si dispiega senza possibilità di placare una pulsione di distruzione generalizzata. È la fine dell’umano nella caverna del male: un centro assoluto, un cunicolo dal quale non si può uscire. La fine dello spazio aperto è anche la fine della vita. L’eroe si apparta, si seppellisce lontano dal mondo “civile”, oppure, rivolge la violenza all’interno dell’ambiente, distrugge il suo stesso mondo. La violenza è la colpa assoluta che dà la tonalità tragica al film. Manny è l’eroe della colpa assoluta: ha ucciso, ha sparato su tutto ciò che si muoveva, ha messo bombe su treni con donne e bambini. È spietato perché è insalvabile.

Solo in un momento il film mostra la nostalgia degli spazi aperti, quando Manny parla con una delle prostitute sfregiate che gli ha portato i viveri nel suo rifugio, e il suo sguardo sosta a lungo sulle montagne immobili piene di neve.

Il film è animato da un sentimento tragico dell’esistenza che nulla può spiegare, se non la grande macchina della pulsione di morte all’opera nella celebrazione gotica della fine di un mito. Ma con uno straordinario colpo di scena finale, che recupera in eccesso tutti i caratteri leggendari che erano stati sottratti al genere. La sparatoria finale restituisce all’eroe “nero” i tratti della invincibilità e della invulnerabilità che erano stati messi in questione per tutto il film. Ma è anche un epilogo “a chiave”, quasi volesse offrire allo spettatore una speciale catarsi: quella di una violenza spettacolare restaurata come maniera e come versione ironica del tragico (è la lezione di Sergio Leone, uno dei due “maestri” al quale Clint Eastwood ha dedicato il film; l’altro è Don Siegel).

Il silenzio della morte regna sulla città domata. L’eroe si allontana solo nella notte, come il fantasma di un mondo infernale, come il morto vivente di un’epoca estinta, il superstite spettrale di un’epopea che si è conclusa con una catastrofe tragica senza alcuna possibilità di apoteosi. È l’“olandese volante” di un’era e di un genere che si chiudono sulla fredda esecuzione di un rito di morte, senza altra motivazione che la sua perfezione spietata in una macchina umana alimentata da una violenza glaciale.

*Il testo è un estratto da Il western: un’epopea moderna contenuto in R. De Gaetano, a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998. 

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