Ogni volta che ci si approccia a un nuovo film di Paul Schrader è come se la sua visione non fosse necessaria. Come se si potesse pre-vedere il film, senza necessariamente vederlo. Tanto il suo mondo è così compatto e ricorsivo. Poi però ogni nuova visione mette in discussione quanto si pensava di ritrovare nell’opera. Oh, Canada (tratto da I tradimenti di Russell Banks, autore che Schrader aveva già adattato nel bellissimo Affliction) è forse l’esempio più eclatante ed evidente. Soprattutto dopo gli ultimi First Reformed (2017), Il collezionista di carte (2021) e Il maestro giardiniere (2022) che costituivano tre variazioni della “serie” bressoniana “A man and his room”. Una serie dalla quale invece Oh, Canada si allontana, spiazzando ancora lo spettatore, che si ritrova davanti a un’opera che al rigore formale dei tre precedenti (soprattutto di First Reformed) contrappone una libertà narrativa e stilistica molto audace.

Tra i tanti autori della New Hollywood ancora in piena attività Schrader è forse quello che più di tutti, sicuramente da The Canyons (2013) in poi, finanziato tramite crowdfunding, si è in maniera evidente sganciato dalle logiche mainstream hollywoodiane per perseguire un’idea molto personale di cinema (per altri versi, è anche il caso del Coppola di Megalopolis). Inoltre, la presenza qui nel cast di Richard Gere, lo stesso interprete di quel film cruciale, non solo per la sua filmografia ma seminale per tutta l’estetica hollywoodiana degli anni ottanta, American Gigolo (1980), inevitabilmente spinge a leggere l’opera come riepilogativa di un’intera carriera. 

Leonard Fife, il documentarista ottuagenario malato terminale di cancro che si confessa davanti a una telecamera, si presenta evidentemente come un intercessore dell’autore. Leonard si è fatto un nome negli anni settanta con un film che ha rivelato i test dell’Agent Orange sui terreni agricoli canadesi, ed è celebrato per una serie di reportage investigativi. Fife non è canadese ma americano e come molti altri giovani suoi connazionali è fuggito in Canada tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta per evitare di essere spediti a combattere in Vietnam. Viene ora intervistato da due dei suoi ex studenti della scuola di cinema, Malcolm e Diana, che sono compagni nella vita e nell’arte, vincitori di Oscar, sebbene a Leonard non piaccia il loro lavoro. Malcolm afferma che, realizzando un documentario su di lui, questo lo consacrerà come un “artiste engagé” e lo renderà “grande nella memoria collettiva canadese quanto Glenn Gould”. Leonard ha però accettato l’intervista per distruggere la sua stessa reputazione. Ha una clausola non negoziabile: sua moglie e partner di produzione cinematografica, Emma, deve rimanere nella stanza per vedere e ascoltare l’intervista. Confesserà cose sulla sua vita pubblica e privata che non le ha mai detto, con completa indifferenza verso qualsiasi uso Malcolm e Diana possano fare del materiale dopo che lui se ne sarà andato.

Il fatto è che la confessione di Leonard e i suoi ricordi non sono lineari, l’uomo confonde continuamente ricordi, passato. È come se nella sua memoria personale entrassero in gioco anche i film visti e realizzati, le storie raccontate. E Schrader utilizza il punto di vista del suo personaggio costruendo un racconto in cui si moltiplicano i piani narrativi, i formati dell’immagine (dai 4:3 al widescreen), i colori (dai toni caldi da melodramma hollywoodiano alle scene in bianco e nero con il grandangolo in interni dai soffitti bassi alla Welles) fino agli estratti dei documentari di Fife: dal primo psichedelico sull’Agent Orange, ai reportage sulla caccia alle foche, al documentario sul processo a un prete pedofilo, inchiodato da una lunga inquadratura fissa e stretta sul suo volto. 

Un racconto che abbandona progressivamente ogni verosimiglianza, come nella scelta di far interpretare agli stessi attori ruoli diversi o ancora di più quando in uno dei primi flashback di Leonard Jacob Elordi, che interpreta Leonard da giovane, lascia il posto a Gere, che però continua ad apparire nello specchio alle spalle del personaggio. Cortocircuiti della mente di un personaggio la cui stessa esistenza è situata in una zona liminale, indiscernibile di realtà e finzione, verità e menzogna

Da questo punto di vista se vogliamo trovare un corrispettivo precedente nella filmografia di Schrader è a Mishima (1985) che bisogna guardare (esplicitamente richiamato, visivamente, per esempio nella scena al ristorante giapponese tra Uma Thurman e il figlio del protagonista). Film co-sceneggiato con il fratello Leonard (sic), anche Mishima presentava una struttura narrativa e visiva molto complessa, che mescolava flashback in bianco e nero alla Ozu a rappresentazioni di alcune delle opere più celebri dello scrittore fortemente estetizzate, alla Bertolucci e Fassbinder. Mishima e Leonard Fife condividono il sogno di “scrivere” la propria vita ed entrambi, a livelli diversi, lo fanno programmando lo “spettacolo” della propria morte

Perché appunto Oh, Canada è un film sulla morte. Ora, però un film sulla morte, e sulla vita, non può non essere anche un film sul cinema. Lo sappiamo da Bazin, Barthes, e da Susan Sontag, esplicitamente citata nel film, che l’immagine foto-cinematografica è inestricabilmente legata alla vita e alla morte. Lo dice chiaramente il film in una sequenza, quasi antonioniana nel suo carattere didascalico, quella della lezione di fotografia in cui Leonard di fronte ai suoi allievi (i due che poi realizzeranno il documentario sulla sua vita e la futura moglie) commenta la famosa foto The Saigon Execution di Eddie Adams. Leonard, citando la Sontag, argomenta come il soggetto immortalato nell’immagine viva per sempre; mentre Emma ribatte che in una fotografia a vivere sarà la morte.

Ma sappiamo anche da Benjamin che ciò che appare grazie alla tecnica fotografica e cinematografica, alla impassibilità ed esattezza dell’obiettivo, è l’«inconscio ottico», uno spazio elaborato inconsciamente, che rivela particolari ignoti e garantisce un margine enorme di imprevisto e di libertà. Che è poi quello che dovrebbe fare quel sistema di specchi e di teleprompter, inventato e utilizzato da Leonard per i suoi documentari e poi utilizzato da Malcom per la confessione di Leonard, nel tentativo di eliminare la situazione di stress dell’intervistato e creare una situazione più immediata, da “confessionale”. Una posizione che lo stesso Leonard riconduce appunto alla psicoanalisi freudiana.

L’immagine quindi come tentativo di portare ad emersione qualcosa che sta nel profondo della coscienza. La verità di una vita. Ed è questa la questione in gioco nel film. Perché se l’immagine foto-cinematografica è capace di vincere la morte, è anche capace di svelare il segreto di una vita? Ma qual è il segreto di Leonard? L’aver evitato il Vietnam fingendosi omosessuale? Quindi il suo essere un codardo, come lo apostrofa il militare alla fine della visita? O forse quella di non essere riuscito alla fine ad amare nessuno. Ma è la stessa moglie a smentirlo. O i continui tradimenti di mogli, fidanzate, amici? Il vero segreto resta indicibile, nessuna facile giustificazione al segreto di una vita che in quanto tale non può trovare una semplice risoluzione. Serve infatti a poco la piccola telecamera di sorveglianza che Malcom fa nascondere dalla sua assistente di nascosto nella camera del morente Leonard. 

E dunque quel “Oh, Canada” pronunciato dalle labbra che in primissimo piano chiudono il film, insieme all’immagine del confine tra Usa e Canada, è forse l’equivalente del Rosebud di Orson Welles. Di una verità a cui non è possibile accedere. Di una vita che «Solo grazie alla morte […] ci serve ad esprimerci» (Pasolini 1972, p. 241).

Riferimenti bibliografici
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972.

Oh, Canada I tradimenti. Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Andrew Wonder; interpreti: Richard Gere, Jacob Elordi, Uma Thurman, Michael Imperioli, Penelope Mitchell, Kristine Froseth, Caroline Dhavernas, Jake Weary; produzione: Northern Lights, Vested Interest, Ottocento Films, Lefthome; origine: USA; durata: 91′; anno: 2024.

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