Un libro come Il trascendente nel cinema di Paul Schrader fa comprendere la continuità nel suo lavoro con la linea di un cinema dell’incontro e della credenza (Bresson e Dreyer certamente, ma anche Rossellini) e questo First Reformed è un film “teorico” ed emozionale insieme che ne riassume e rilancia l’importanza e la necessità. Se in The Canyons (2013) Schrader filmava l’“hollow man” eliotiano (in quel film indugiava su un ritratto dipinto di T.S. Eliot), e insieme le macerie interiori e gli spazi vuoti di una “fine dell’umano”, qui riparte dal buio che lentamente si rischiara avvicinandosi a una inquietante chiesa bianca dalla porta sbarrata. Dietro quella porta chiusa ci si inoltra in un territorio, quello di una delle prime comunità calviniste in Michigan, che appare come un distillato di tutto il suo mondo filmico.
Ethan Hawke (la cui fisicità rimanda a Bing Crosby in tonaca in La mia via di Leo McCarey, del 1944) riporta alla memoria il sacerdote bergmaniano di Luci d’inverno (1963), o il curato di campagna di Bresson (Hawke è un tormentato pastore che tiene un diario scritto al buio di una stanza che sembra orbitare nell’abisso, e le cui pagine è intenzionato a bruciare), ma soprattutto tanti personaggi dello Schrader sceneggiatore e regista: dal giovane ex-monaco guaritore con le stimmate in Touch (1997) allo sceriffo svuotato di Affliction (1997), dal Cristo recalcitrante di L’ultima tentazione (1988) di Scorsese allo scrittore suicida di Mishima (1995), fino a riprendere (nel delirio schizoide e autodistruttivo davanti allo specchio) il De Niro di Taxi Driver.
Ma la grandezza del film sta in una sorta di pregnante teoria, proprio nel senso di una perlustrazione visuale degli spazi serrati delle stanze, a-dimensionati e distorti rispetto alle figure umane, entro cui si macera il pastore, fino a porsi sul torace un cilicio di fil di ferro, e nella direzione di una anatomia delle macerie di un mondo svuotato di senso e alla deriva verso la distruzione dell’habitat umano. Una teoria delle potenze salvifiche e trascendentali entro cui la grazia può trovare le sue vie oblique e circonvolute (come nella frase finale del bressoniano Pickpocket, citata in American Gigolo) per manifestarsi attraverso l’immagine e la parola, e l’interdizione che vi è connessa.
E certo qui Schrader sembra tracciare un autoritratto, ritornando a un trauma inerente alle immagini: quando da bambino gli si impediva per motivi religiosi di vedere film, e insieme sembra imprimere al film una specie di precipitazione, dal vuoto e dal buio della prima parte, verso la possibilità e la necessità di mettere in moto, direi in volo, sulle macerie umane, l’invenzione di un mondo, tutto inscritto dentro il contatto; l’incontro empatico con i corpi, e la capacità di trarre dal silenzio una parola redentrice. Ma al contempo in questa epifania delle immagini che scaturiscono dalle parole, inerisce un interdetto, un taglio sanguinante che ne barra l’accesso e insieme fa precipitare in quello che Lacan chiamerebbe “buco di reale”. Per Padre Toller (il pastore ha lo stesso nome e cognome, non a caso, di Ernst Toller, il drammaturgo espressionista e rivoluzionario tedesco, autore di Uomo massa che, fuggito dai nazisti e rifugiatosi in America, si suicidò in una stanza dell’Hotel Mayflower di New York, nel 1939) soltanto la possibilità e necessità di un incontro, di un contatto d’amore può mettere le ali e aprire alle immagini quello spazio vuoto. È ciò che, del cristianesimo, Jean-Luc Nancy nomina come dischiusura.
Qui, in questo eliotiano “posto vuoto” è la scommessa arrischiata dell’incontro d’amore e della singolarità di “esistenza-una vita”, direbbe Deleuze, a vincere (e insieme a destinare a un abisso infigurabile) e a fare di questo diario, scritto col sangue e con la carne, una riaffermazione di credenza, un atto, una esperienza, materiale e insieme estatica. Come quel volo nei cieli e sulla terra del prete e della ragazza, che fanno combaciare i loro corpi e i loro respiri sul pavimento e piano piano levitano e si involano nelle immagini di un cielo notturno stellato e poi nella luce raggrumata come una pelle che si ricompone sulla ferita e dischiude il mondo di terriccio e macerie visto dall’alto. Un volo che certo è un ricordo della sequenza di volo estatico (omaggio a Murnau) in Lo strano caso di Angelica (2010) di De Oliveira (dove un fotografo vive il suo incontro d’amore con il fantasma di una giovane bellissima il cui cadavere è stato convocato a fotografare, cogliendone un segno miracoloso: l’aprirsi degli occhi di lei sotto lo scatto fotografico).
Nel film di Schrader la ragazza incinta del giovane ossessionato dall’entropia di autodistruzione del pianeta e destinato al suicidio (il giovane porta il nome dreyeriano e “sacro” di Mikael e Padre Toller lo va a visitare in periodici colloqui dove la parola dovrebbe farsi guaritrice, eppure apre abissi di senso, gravitando nel vuoto), incarna l’incontro d’amore imprevisto, determinante, portatore di una vita che decide (in un abbraccio turbinoso, spezzato dal buio che improvvisamente e misteriosamente ritorna in un taglio) del destino creaturale, di una credenza restituita al mondo, al suo muoversi, parlare e immaginare insieme all’uomo, ai suoi pezzi e alle sue forme di vita. Questo film, nella decisione per le potenze della vita, per Schrader costituisce forse il suo Gertrud.
Riferimenti bibliografici
P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2002.
J-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo 1, Cronopio, Napoli 2007.
G. Deleuze, Immanenza: una vita…, Mimesis, Milano 2010.