Fiori che sbocciano si affiancano ai titoli di testa di Master Gardener di Paul Schrader. La prima inquadratura è su un uomo solo in una stanza buia, ricurvo alla scrivania, di fronte a uno specchio, intento a computare su un diario una tassonomia floreale, appunti sull’arte dei giardini: quelli romantici all’inglese che incorporano il lato selvatico della natura e quelli all’italiana che modellano piante e fiori secondo un ordine simbolico, che allude alla rivelazione del trascendente nell’immanenza della bellezza. Schrader assume la metafora del giardino per mettere in forma filmica ancora una volta il suo cinema gnostico che gioca il conflitto tra benedizione e maledizione, espiazione e redenzione.

Il film compie un trittico ideale sul travaglio della trasformazione interiore e sul riscatto redentivo delle colpe passate, con i precedenti First Reformed (2017) e The Card Counter (2021). Anche qui viene posta al centro la solitudine di un uomo “senza qualità” dalla cui interiorità tormentata affiora un flusso di coscienza che ascoltiamo in voice over, mentre le parole si depositano nella scrittura di un journal intime (la forma del diario che Schrader predilige spesso guardando alla lezione del prediletto Bresson). Se negli altri due film della trilogia, il pastore riformato Ernst Toller in crisi di fede e William Tell, l’ex carceriere di Abu Ghraib ossessionato dalle sue colpe di aguzzino, percorrevano un calvario personale lungo una traiettoria tragica, qui si tratta di figurare un ritiro dal mondo.

Narvel Roth (un Joel Edgerton assorto, introflesso, meditativo) si è rifugiato, in fuga dal proprio passato violento e oscuro, in una specie di Eden floreale, al servizio come “maestro giardiniere” di una ricca vedova, Norma Haverhill (una Sigourney Weaver dal volto segnato ma ancora magneticamente seduttiva), tirannica e vanesia ex-attrice, reclusa in una grande villa come una rediviva Norma Desmond, proprietaria del grande parco botanico di Gracewood Gardens (un “bosco della grazia” dal nome pregno di echi simbolici). Roth viene da un passato di colpe rimosse, porta letteralmente inscritto sulla pelle tatuata, nascosta sotto la maglietta, nelle forme di svastiche e teschi, il suo trascorso, l’appartenenza a un White Pride, gruppo paramilitare di fanatici razzisti e neonazi.

Eppure da quell’apprendistato criminale proviene un destino che lo conduce al culto floreale, alla vocazione di floricultore, dal momento che è proprio il vecchio capo della gang fanatica a regalargli un libo sui giardini. Su quelle pagine Narvel riconosce una vocazione, che del resto è anche incisa nel suo nome, che è lo stesso di un botanico tedesco del Settecento Albrecht Wilhelm Roth. Vocazione che suscita un destino di redenzione attraverso la coltivazione dei giardini, la cui efflorescenza avviene solo se si sanno estirpare da sé le male erbe. Roth occulta le stimmate della colpa sotto le vesti, come se vivesse simultaneamente due corpi diversi, due identità compresenti: quella di una sorta di “angelo guardiano” di un Eden fuori dal mondo, vissuto come hortus conclusus e protettivo, e quella di una specie di “angelo caduto” con le ali sporche di fango, macchiate dal sangue delle violenze passate (la statua dell’angelo con le ali aperte che campeggia nel giardino è una allusione implicita a questa doppia natura).

Quando la vedova, come una dea imperiosa e perfidamente luciferina, gli conferisce un incarico delicato, quello di accettare come apprendista la giovanissima fragile, emotiva, riottosa pronipote Maya (altro nome simbolico che rimanda al carattere illusorio, al “velo della natura” di retaggio induista che Schopenhauer interpreta come forma illusoria del reale), nell’ordine “ben temperato” del giardino interiore ed esteriore abitato da Roth irrompe il disordine caotico del desiderio, dell’emotività. E viceversa per la capricciosa Maya, con un trascorso di tossicodipendenza, comincia un simmetrico iter redentivo, un viaggio di formazione che passa attraverso il sentimento di attrazione per Narvel, nel riconoscimento in lui del padre perduto, che corrisponde in Roth al lutto mai elaborato per la figlia morta.

C’è tutto un gioco di simmetrie e di costruzioni spaziali nella cura schraderiana della disposizione dei luoghi come allestimenti meticolosi del riflesso del set, del suo avvaloramento simbolico come specularità dei sentimenti, delle relazioni di amore o di odio (“I semi dell’odio germogliano proprio come i semi dell’amore” è una frase del flusso di pensieri con cui lo stream of consciousness di Roth scandisce i passaggi del film). Il conformarsi della metafora arborea, l’assunzione della figura floreale, la visione del giardino come forma simbolica, diventano analogia della “cura” e della “guarigione” di anime ferite e reciprocamente attratte da una alchimia erotica (come nelle goethiane Affinità elettive). Tale disegno di mise en scène è insito nella struttura stessa del film, fatta di sentieri filmici, di traiettorie figurali entro cui i paesaggi di Schrader come sempre si imbricano e si dipanano, secondo linee destinali.

Qui da un lato nei travelling all’interno del parco lungo i viottoli fioriti, dall’altro nella discesa agli inferni metropolitani lungo le strade americane punteggiate di motel e di non-luoghi che si snodano nella seconda parte del film, quando Roth e Maya escono dall’Eden di Gracewood, come in una cacciata dal paradiso, aprendo i varchi verso l’espiazione e la redenzione dalla colpa. Quando i due braccano gli spacciatori del racket con l’intento di eliminare la gang paranazista, ed estirpare così la “malerba” che infesta il loro giardino interiore, Schrader gira due delle scene più commoventi del film. Nella stanza di un motel le loro ombre sono inquadrate in silhouette nel fondo campo: lei dice che ha voglia di spogliarsi, e lui si mette nudo scoprendo i segni incisi dei tatuaggi come piaghe, promettendole di cancellarle, e si inginocchia davanti al ventre della ragazza accostando la bocca al sesso di lei, che è un atto erotico di devozione e di venerazione. L’altra sequenza è una liberatoria corsa in auto nella notte, percorrendo una strada orlata di fiori che brillano nel buio, entrando in una apparizione magica: quella di un giardino luminescente e rigoglioso, mentre gridano nel vento la loro gioia. È il compimento di un iter trasformativo di reciproca guarigione entro cui avviene il miracolo del dischiudersi di un innamoramento (così come si dischiudono i fiori all’inizio, sui titoli), un riconoscimento amoroso che suggella il film.

C’è una insolita eco eastwoodiana in Master Gardener: pensiamo alla tenerezza del rapporto tra l’anziano Frankie e la giovanissima Maggie di Million Dollar Baby (2004), dove si tratta appunto di apprendistato, di “allenamento” amoroso intrattenuto da un dolore che si converte in amore, o soprattutto al floricultore Earl Stone in un film come The Mule (2018), che si apre e si chiude con il tocco delicato delle mani di Clint sulla fragilità di un fiore. Eppure Master Gardener custodisce e sprigiona tutte le ossessioni schraderiane: l’avvento misterioso della “grazia”, l’itinerario di espiazione dostoevskjana dei suoi personaggi, la liberazione dalle catene della colpa, l’incontro tra due solitudini, l’amaro sapore del dolore. Ma qui c’è una sorta di svolta romantica nel segno di riconciliazione e di riscatto in una nuova credenza nel mondo. La forma romanzesca dell’amore dissoda il terreno, per Schrader abituale, del tragico.

Tornato a Gracewood e “risanato” il parco dalla furia devastatrice della vendetta da parte del clan delinquenziale, Narvel annuncia a Norma, che a stento trattiene una sorda gelosia, la sua intenzione di tornare al suo “magistero” di giardiniere, a patto di sposare Maya e di vivere con lei nella tenuta. In campo lunghissimo vediamo la coppia tenersi per mano davanti alla porta della casetta che Roth è ritornato ad abitare, questa volta con Maya. Il carcere di The Card Counter è diventato il giardino. Risuonano alla fine del film le note di una canzone d’amore: “Non volevo lasciare questo mondo senza dirti ti amo”. È un messaggio personale ma anche globale. Ha detto Schrader a questo proposito che forse è la canzone che canteremo quando il mondo finirà. Piuttosto che con uno schianto, piuttosto che con un lamento (per dirla con T.S. Eliot), è con la dolcezza di una canzone che tutto scomparirà, per poi riapparire nella forma di un paradiso riconquistato, di un giardino di redenzione.

Master Gardener. Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; interpreti: Joel Edgerton, Sigourney Weaver, Quintessa Swindell, Esai Morales; produzione: Northern Lights, KOJO Studios, Ottocento Films, Flickstar; origine: USA; durata: 111′; anno: 2022.

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