D’improvviso, ecco Artavazd Pelešjan. Entra in Sala Laguna, il nuovo spazio cinematografico al Lido di Venezia gestito da Edipo Re/Isola Edipo in collaborazione con Giornate degli Autori. Le studentesse e gli studenti presenti in sala, così come gli altri spettatori, hanno da subito l’impressione di trovarsi di fronte a un’incarnazione della storia del cinema: l’artista armeno, studente del VGIK di Mosca negli anni sessanta, autore di una teoria del montaggio che entra in dialogo e propone un superamento di Ejzenštejn e Vertov, regista di straordinari film sperimentali per lo più a base d’archivio (Pattuglia di montagna, 1964; La terra degli uomini, 1966; Noi, 1969; Gli abitanti, 1970; Quattro stagioni, 1975; Il nostro secolo, 1982; Fine, 1992; Vita, 1993, etc.). Ecco la voce di Pelešjan. Nella sorpresa di tutti, rompe il proverbiale silenzio. Dice qualche parola sul suo cinema. Dialoga con i presenti in sala. Racconta alcuni aspetti artistici e produttivi riguardanti l’ultimo film, La Nature, commissionato nel 2005 da Fondation Cartier e dal ZKM Filminstitut, Karlsruhe. Poi le luci si spengono, il proiettore si scalda, si inizia.
Nell’ora che segue, lo sguardo viene spinto e sbattuto dalle vette montane agli oceani in tempesta, dal fuoco che eccede i coni vulcanici ai moti atmosferici. La superficie dello schermo diventa lo spazio di iscrizione di una natura intesa come forza al contempo costruttrice e devastatrice, dove il primo termine deve essere pensato al di là della prospettiva umana, mentre il secondo, il timore insito nell’idea di devastazione, corrisponde al punto di vista e alle esigenze specifiche dell’uomo. Il montaggio di immagini eterogenee – documenti televisivi di catastrofi naturali, immagini kitsch e pixelate, provenienti da archivi digitali – si caratterizza per un impianto ritmico variabile, con passaggi dinamici e momenti più statici nei quali si afferma (forse per la prima volta su tale scala) la durata della singola inquadratura, il piano sequenza. Come in altri suoi film, il regista elabora dunque un montaggio audiovisivo che si appoggia al registro sinfonico e si lega alla tonalità del requiem.
Tutto il cinema di Pelešjan è una riflessione sul rapporto tra caos e bellezza. Un cinema paradossale, al contempo povero, elementare, barocco (le pieghe e i ripiegamenti del reale), spettacolare, cosmetico. Un cinema in cui l’idea di natura assume configurazioni diverse – ora includendo, ora escludendo l’uomo –, mai concilianti. Basti ricordare Gli abitanti (ripreso e rimontato da Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo in Gli ultimi giorni dell’umanità, presentato proprio quest’anno a Venezia), dove Pelešjan articola un vertiginoso e spaventoso montaggio faunistico, formando e deformando l’immagine in una sorta di apocalisse animale. Oppure, sul versante opposto, si pensi a Le stagioni, dove la ciclicità del tempo e la costante, giocosa, interazione tra l’uomo, l’animale e il vegetale sembrano esprimere e affermare l’ipotesi di una coesistenza precaria e duratura, nel divenire.
Se alcuni dei suoi lavori dei decenni passati hanno indagato la possibile reciprocità tra le forze naturali e i gesti dell’uomo, dove al cinema spettava il compito di valorizzare tale corrispondenza, tutto ciò appare compromesso all’interno del nuovo film. In La Nature non c’è margine per mostrare la qualità tecnica ed estetica delle azioni e dei gesti. Laddove il naturale si afferma come pura potenza, l’unica forma d’azione sono i gesti goffi e disperati di chi cerca un rifugio in contingenze di eruzione, inondazione, tsunami. E, sorprendentemente, per chi conosce il suo cinema senza parole, Pelešjan lascia qui intendere la voce umana, nelle esclamazioni, imprecazioni e grida di chi è sorpreso e travolto dal circostante. Quasi come che questa vocalità ultima e, in un certo senso, già postuma facesse scarto rispetto al dominio del logos, divenendo rumore tra i rumori, suono tra i suoni.
Se non una rottura, La Nature marca uno scarto, assume una concezione geo-antropologica in linea con le cosiddette svolte del post-umano e non-umano che hanno caratterizzato la ricerca filosofica e artistica degli ultimi anni. Contro un ecologismo basato sulla centralità dell’uomo, quanto si rende necessario, sembra dirci il regista, è prendere atto del radicale squilibrio tra la forza creatrice e devastatrice degli elementi naturali e la capacità umana di formalizzazione. Certo, anche di fronte agli eventi più catastrofici, una macchina da presa o una videocamera possono ancora registrare quanto fronteggiano. Allo stesso modo, il montaggio e le altre tecniche di composizione del film possono in qualche modo riprodurre ed esaltare la spettacolarità insita nei fenomeni naturali. Ma registrare e riprodurre sono qualcosa di ben diverso dal comprendere ed elaborare soluzioni corrispondenti alla situazione in questione.
A dover essere ripensata con questo film è dunque l’idea stessa di una non indifferenza della natura rispetto ai processi compositivi che, quantomeno a partire dalla lezione di Ejzenštejn, influenza la pratica cinematografica. Il montaggio cinematografico di La Nature, insieme alla tecnica del ralenti, entra in rapporto con il carattere esplosivo, estatico, della natura, ma senza che tutto ciò possa trovare un corrispettivo sul piano narrativo e diegetico. Quello che viene meno è insomma la presenza di una Marfa Lapkina (l’ovvio riferimento è alla protagonista della celebre “sequenza della centrifuga” in Il vecchio e il nuovo, 1929, di Ejzenštejn): la possibilità che un soggetto umano, presente all’interno del film, si faccia carico della sintesi tra uno stato di cose inevitabilmente critico e il sistema di tecniche e tecnologie che garantiscono la gestione e il superamento della crisi stessa.
Se la realizzazione e archiviazione dei video di catastrofi naturali sui quali si basa il film sono la prova di una disponibilità dell’ambiente a essere ripreso (e sorvegliato) dalla tecnologia, a venire meno è l’idea di una apertura della materia ai gesti formativi dell’uomo (del resto, nell’epoca della machine vision, anche l’elaborazione sembra ormai delegata alle macchine). Che cosa fare delle spettacolari immagini che documentano le devastazioni presenti e imminenti che si articolano su larghissima scala, resta, in altre parole, una questione aperta, alla quale il film non sembra dare risposta. Proprio come aperta è, del resto, la questione riguardante il nostro ruolo e le nostre effettive possibilità di trasformazione e adattamento – oltre il nichilismo – nello scenario ecologico contemporaneo.
Quella mostrata da Pelešjan non è tuttavia una natura indifferente o matrigna. Piuttosto, il film ci spinge a realizzare il fatto che la natura è prima di tutto non indifferente a sé stessa, in una dinamica creativa che coinvolge acqua, aria, fuoco, terra, e che può benissimo prescindere dai saperi e dai gesti dell’uomo, nonché da una concezione estetica antropomorfa. La forma filmica è come condizionata da tutto ciò. Di fronte a tale decentramento, le facoltà conoscitive e critiche insite nel montaggio subiscono un ridimensionamento o quantomeno un riorientamento. In La Nature, è come se il concetto e la pratica del “montaggio a distanza” teorizzata da Pelešjan – l’idea che riproporre una stessa immagine, uno stesso suono, o una stessa sequenza in momenti successivi del film assuma una efficacia conoscitiva e critica – non potesse più articolarsi appieno. Laddove è la forza elementale a dispiegare il suo potenziale estatico e creativo, allo sguardo cinematografico non resta che osservare e comporre le immagini in modo da suscitare una sorta di originario (estremo) stupore. Non c’è né spazio di esercizio per qualcosa come un occhio-coscienza, né possibilità di sintesi e comprensione di fronte al predominio dell’inondazione e dell’esplosione.
In un rapporto di continuità/discontinuità con la ricerca cinematografica di Pelešjan, La Nature è un tentativo di riflettere sul senso della fine, sui sentimenti che suscita e i paradossi che lo accompagnano: la non indifferenza della natura a sé stessa, ovvero l’apertura reciproca tra gli elementi, ciò che gli assegna una potenza di metamorfosi illimitata; la pretesa dell’uomo di immaginare – potremmo dire premediare – la sua stessa estinzione, attraverso una sorta di cinema naturale dove viene meno l’opposizione tra lo sguardo e l’oggetto; la speranza, in fondo, che un profondo decentramento possa contribuire all’affermazione di qualcosa come una nuova coscienza. Del resto, alla fine, quantomeno il sole sorge ancora.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma, le forze, ETS, Pisa 2012.
S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1981.
A. Pelešjan, Montaggio a distanza: il cinema di Artavazd Pelesjan, 25. Mostra internazionale del nuovo cinema: Pesaro 2-11 giugno 1989, Fiori & Avanzini, Roma 1989.
La Nature. Regia: Artavazd Pelešjan; sceneggiatura: Artavazd Pelešjan; produzione: Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe (ZKM) (Karlsruhe), Cartier Foundation (FR), Folk Art Hub Educational Cultural Foundation (AR); origine: Argentina, Francia, Germania; durata: 62’; anno: 2019.