Su un fondo nero, come fosse un grado zero della visione, la voce sussurrata ma inconfondibile di Ghezzi enuncia il titolo del suo nuovo libro: L’acquario di quello che manca (La Nave di Teseo, 2021), che è una sorta di labirintico compendio di oltre cinquant’anni della sua scrittura eterodossa e geniale in forma di specchio pubblico-privato. L’evocazione di quel titolo non è casuale, perché di fluttuazioni, derive, naufragi, affioramenti, immersioni ed emersioni di immagini si tratta in Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Tutto avviene come se l’occhio della cosa vista e di chi vede (del film stesso e degli spettatori) fosse una sonda “magica” capace di far affiorare quelle immagini potenzialmente infinite dall’oceano delle visioni. Infatti l’immagine che segue (e che manca rispetto al buio iniziale) è la distesa nebbiosa delle onde del mare su cui in lontananza naviga una barca.
Così si dischiude un’opera-mondo che è un viaggio ipnotico e allucinatorio, oltre che una “tela” dove si intessono secondo una “ars combinatoria” analogica le immagini enucleate, prelevate da un corpo memoriale depositato in più archivi di cui viene fatta saltare ogni tassonomia, per restituire quelle immagini a una vita che ogni volta sprigiona da sé il suo stato nascente. Anzitutto affondando nell’infinito archivio personale di Ghezzi, specchio della sua pulsione onnivora e incessante a filmare. Filmare squarci intimi di vita privata e familiare con uno sguardo amoroso spinto all’estremo (intimamente “alla Jonas Mekas”). Farsi memoria incarnata di film visti, rivisti, letteralmente rigirati dal suo sguardo fuori dall’orbita, come fosse un riautore, nel momento stesso in cui con il suo gruppo di lavoro li pone fuori dall’orbita, li pesca e li reimmette nelle onde del mare notturno di “Fuori Orario”. Farsi incursione in forma di ripresa, ogni volta che si presenta l’occasione, negli incontri con i cineasti amati. Insomma far confluire nel medesimo pulsare delle immagini ogni possibile sconfinamento vitale tra pubblico e privato, ogni tracimazione del “film della vita”.
Questa attitudine ha accompagnato Ghezzi lungo il tempo, dagli anni ’70 agli anni 2000, andando a formare come una rifrazione del suo attraversare simultaneamente il cinema e la vita, della onnivora sua passione del vedere tutto, del vedere oltre, cogliendone i nessi segreti, i contrappunti nascosti, il gioco analogico. Ed è proprio dal disporsi del gioco dei tarocchi in un incontro tra Ghezzi e Umberto Eco visto da Gagliardo a Fuori Orario che nasce l’idea del film, in una curvatura tra caso e destino che fa pensare alla poesia visiva di Mallarmé Un coup de dés jamais n’abolira le hasard.
È cominciato così un viaggio nel vortice delle immagini, facendosi risucchiare nel loro gorgo fertile (nel film viene citato Una discesa nel Maelström di Poe) durato quattro anni, costruendo passo dopo passo il difficile progetto produttivo. Hanno cominciato a cortocircuitare con l’archivio ghezziano i materiali di altri archivi, a cominciare da quello di Malastrada Film, a cui si sono aggiunti l’archivio di news e dirette dell’agenzia di stampa russa Ruptly, quello dell’astronauta Jean-Francois Clervoy, quello del cineasta sperimentatore spagnolo José Val del Omar. E mano a mano, suscitati e messi in circuito, hanno trovato la loro eco, disponendosi nel film come lampeggiamenti improvvisi i lacerti filmici risemantizzati di Pelešjan, Sokurov, Bela Tarr, Sybeberg, Wakamatsu, Carmelo Bene, Iosseliani, Tsukamoto, Emmer, Bertolucci, Kurosawa, Fellini, Abel Ferrara, Debord, Straub &Huillet… tutte magnifiche ossessioni ghezziane.
Ma questi prelievi hanno miracolosamente assunto una vita propria, un senso altro: sono diventate cifre subliminali, disponendosi in un rilancio continuo, infiltrando i tempi contratti nella fulminea apparizione, oppure nel distendersi, nel dilatarsi, nel dare respiro a una sorta di ritmica caosmica (come direbbero Deleuze-Guattari). Con il procedere del montaggio, con l’intarsio immaginario, ha preso forma e cadenza quello che appare come un poema in atto, che si scompone e ricompone sotto in nostri occhi, avanzando a onde visivo-sonore, germogliando con la molteplicità eterogenea del rizoma, entro cui la puntualità di ciascuna immagine si trasmette e si protrae a distanza immergendosi e riemergendo in più punti. C’è ad esempio, in questo senso, il ricorrere contrappuntistico di sequenze da L’uomo dagli occhi a raggi X (1963) di Roger Corman: Ray Milland in quel film è uno scienziato che si inietta negli occhi un liquido che li rende penetranti come i raggi X, ma poi impazzisce e finisce per strapparsi gli occhi.
Ecco: la visione di Gli ultimi giorni dell’umanità è come se richiedesse empaticamente allo spettatore di cavarsi gli occhi ponendoli fuori orbita e conferendo alle immagini una deviazione continua nell’oltrevista. Questo motivo “orbitante” insiste nel film di Ghezzi e Gagliardo in altri punti dove avviene una specie di dilatazione del tempo che si riversa nello spazio della visione: la lentissima discesa nel cielo di una capsula spaziale, il fluttuare ondulante fuori gravità di una goccia nel vuoto sottratto all’atmosfera. Così come si giustappongono a questi “vuoti d’aria” di immagini silenziose, le irruzioni convulse di un lato selvaggio e apocalittico connesso alla natura bruciante e infuocata, alla furia elementale: animali “in fuga”, brulicare di folla, eruzioni vulcaniche e nebulose di fumo che si gonfiano, in una specie di ritorno alla conformazione materica delle origini del cinema.
In un folgorante momento sono Jean Marie Straub e Danielle Huillet a fornirci una chiave essenziale: quando ammoniscono, rivolgendosi a un pubblico di studenti, la necessità politica di restituire al film il suo sguardo proprio, per quello che è, senza proiettare e sovrapporre alle immagini una presupposizione. Emerge allora in vari punti un senso politico che si pone dentro l’immagine in sé, il suo presentarsi senza rappresentare. Un lungo piano fisso sul luogo in cui a Charlottesville, in Virginia, l’auto di un suprematista si lanciò sulla folla di un corteo antirazzista. La videocamera di Ghezzi che riprende gli attacchi della polizia al G8 di Genova. L’incendio del Cinema Statuto a Torino nel 1983. Il lungo monologo del “criticone” nella messinscena ronconiana del testo di Karl Kraus Gli ultimi giorni dell’umanità, riconducendo al titolo del film che stiamo vedendo, in una “trenodia” degli orrori della guerra del XX secolo che si riverbera su quelli del nostro XXI, con una fulminante incursione in stacco di montaggio dei fantasmatici soldati in marcia mentre escono dal tunnel di Dreams (1990) di Kurosawa.
Il corrispondersi e il mutarsi delle sequenze, l’incedere per stacchi netti o per sovrimpressioni, la stratificazione filmica che si protrae in dilatazioni e contrazioni, permettono alle immagini di nascere una dall’altra, di rilanciarsi e di ritornare su se stesse, di accedere a una epifania che ne rivela lo stato nascente. Per riprendere il lessico di Walter Benjamin, queste immagini “in fuga” assorbono e lasciano dolcemente depositarsi la loro aura. Ma c’è una Aura nel film che corrisponde a un volto e a un corpo, al risuonare limpido di una voce, al palpitare di un’anima, come uno spirito guida nella metempsicosi delle immagini, nel loro nascere e rinascere, nel loro manifestarsi. Aura è la secondogenita di Enrico Ghezzi. Insieme alla sorella maggiore Martina, la vediamo bambina nella dolce quotidianità delle riprese “di famiglia”, ogni volta interpellata, come carezzata con tenerezza dalla videocamera del padre, nei suoi sonni e risvegli infantili. Ma è fin dall’inizio del film che il volto e la voce di Aura (che è diventata una giovane attrice) si pongono come introibo al viaggio delle immagini, e come intercessione alla loro nascita. E questo avviene quando, guardando in macchina con limpida compostezza Aura ci restituisce le parole di tre racconti di Franz Kafka. In uno di questi racconti, Il villaggio vicino, una frase sembra racchiudere in sé l’andamento del fluttuare magnetico del film: il tempo di una vita potrà mai bastarci per una simile traversata? Il viaggio verso un vedere oltre, dove l’ultima visione che ci appare si rivela essere sempre la prima. Immagine estrema al suo stato nascente.