Una strada percorsa in soggettiva da una camera-car si addentra in un contesto bucolico, rurale. È il mondo di Alain Guiraudie, fatto di elementi di continuità, in cui il vecchio si mischia con il nuovo, il fantastico con il reale, in cui il visibile si contrappone all’invisibile, il dramma alla commedia. Con boschi e campagne che a partire da La force des choses (1997) e da Du soleil pour les gueux (2001) sono attraversati da personaggi tra il medievale e il contemporaneo alla ricerca di uno scopo o di un obbiettivo, metaforico o simbolico – come gli ounaye: creature mitiche, immaginarie, che non ci è permesso vedere ma soltanto percepire nel fuoricampo. Mentre, nello stesso periodo, con Ce vieux rêve qui bouge (2001) inizia a definire il proprio stile rigoroso e a lavorare con i temi fondamentali del suo cinema: attrazione e fascino verso il male, sesso intergenerazionale e triangoli omoerotici.

Tornando alla strada, già Rester vertical (2016) si apriva con la medesima soggettiva che appariva da una dissolvenza in nero, come a voler emergere da quell’oscurità profonda e desolante che lentamente inghiottiva le ultime immagini del precedente Lo sconosciuto del lago (2013). La strada di L’uomo nel bosco (2024) che sui titoli di testa ci conduce a Saint-Martial compare invece da uno stacco netto, come a ripartire dalla scena luminosa, ma non per questo meno terribile, che pone fine a Rester vertical. L’idea di continuità, di percorso che procede da un film all’altro, ci permette di inquadrature subito l’ultima opera di Guiraudie quale parte di un insieme e, può darsi, apice di una filmografia sempre più complessa e coerente.

L’uomo nel bosco non si limita però a riproporre immaginari e temi ricorrenti, anzi gioca con essi cercando nuove strade tramite il già conosciuto, innanzitutto rovesciando e ampliando quanto visto in Lo sconosciuto del lago. Torna il fascino incontrollato suscitato dal male che spingeva Franck verso il pericoloso Michel e lontano dal candido Henri, ma la prospettiva è ribaltata (il protagonista non è chi subisce l’attrazione, bensì chi la esercita rappresentando il male) e moltiplicata (l’ossessione per l’uomo e il suo magnetismo coinvolge diverse persone del paese). La certezza della conoscenza diventa ora incertezza per Jérémie e per lo spettatore: forse tutti sanno cosa è accaduto nel bosco; forse le sue intenzioni sono diverse da quelle che crediamo. Si instaura così una diramazione di relazioni di varia natura che coinvolgono il protagonista e che sembrano reiterare scena dopo scena un atto sessuale negato, sempre posticipato e mai compiuto, alimentando fino ai titoli di coda un serie di dubbi, ambiguità, che non verranno davvero sciolti.

Per la costruzione dell’intreccio Guiraudie sceglie di attingere alla figura dell’ospite pasoliniano, divenuta ormai quasi un modello classico per quanti film solo negli ultimi anni lo hanno utilizzato, omaggiato o rielaborato: Copenhagen Cowboy (Refn, 2022), Saltburn (Fennell, 2023), The Visitor (LaBruce, 2024) o, andando più indietro, Visitor Q (Miike, 2001), Borgman (van Warmerdam, 2013), Il sacrificio del cervo sacro (Lanthimos, 2017). A differenza dell’ospite di Teorema (1968), figura per certi versi passiva, statica, simbolo o strumento funzionale a scatenare le individuali trasformazioni dei personaggi circostanti senza tuttavia agire a sua volta come tale (“Chi è quel ragazzo? Un ragazzo”), Jérémie è una figura attiva, dinamica, un essere umano sfuggente dotato di un passato che si muove in bilico tra l’agisce e il subire. Un ospite che non è soltanto la “causa” dei turbamenti, ma anche e soprattutto il “fine”.

La sola presenza di un estraneo che irrompe in un sistema (familiare, sociale) per destabilizzarne l’ordine non è quindi sufficiente per giustificare un reale accostamento all’opera di Pasolini, con cui il cinema di Guiraudie condivide poco o niente. Volendo trovare un riferimento cinematografico, in linea con le suggestioni che durante la visione rimandano a L’umanità (1999) o Hors Satan (2011) di Dumont, L’uomo nel bosco mostra una vicinanza con un certo cinema francese che negli anni si è costruito sul lascito bressoniano. Per la ieraticità conferita ai volti e ai piccoli gesti; per il suo farsi film di sguardi, prolungati e silenziosi, dotati della capacità di rendere visibile quell’invisibile che si cela davanti (e dietro) gli occhi. Basta poco, un’impercettibile esitazione prima di chiudere una porta seguita dal suo controcampo, o uno sguardo con la coda dell’occhio sorseggiando una bevanda. Ma anche per la devozione dedicata al silenzio, lasciando che «i rumori diventino musica» (Bresson 2008, p. 31). Il suono delle ruote sull’asfalto, del fruscio degli alberi, di un masso che colpisce la nuca di un uomo o semplicemente la sua provvisoria assenza. Dopotutto, come sostiene Bresson, è il sonoro ad aver inventato il silenzio (ivi, p. 46).

Nella scelta della scala dei piani – fondamentale per il lavoro svolto sugli sguardi – Guiraudie sembra recuperare la teoria del montaggio delle attrazioni, che per Ėjzenštejn consisteva in momenti di rottura della continuità del racconto che avessero la forza di aggredire lo spettatore dal punto di vista sensoriale. In Le Roi de l’évasion (2009), spartiacque stilistico per Guiraudie, un brusco stacco di montaggio ci porta sulle natiche di Ludovic Berthillot che pratica una fellatio a una giovanissima Hafsia Herzi; mentre in Rester Vertical ci porta su una lunga scena di eutanasia di un anziano praticata tramite un atto di sodomia. Un’idea di aggressione che risulta ancora grezza, esplicitamente provocatoria e volgare. Arrivati a L’uomo nel bosco essa diventa più sottile, minimale, brillante nella sua apparente semplicità. Dei primissimi piani, con campo e controcampo, che irrompono violentemente sullo schermo rompendo l’ordine visivo rispettato fino ad allora. Basta avvicinare l’inquadratura a un volto per colpire lo spettatore e dare maggiore intensità. Prima quando Jérémie conferma a Martine di amare il suo defunto marito; poi quando padre Philippe ammette di sapere cosa è accaduto nel bosco. Eppure, quest’ultimo non sembrava essere presente. 

Così come quello attraverso cui fuggono Curly e Armand in Le Roi de l’évasion, si appartano per fare sesso i personaggi di Lo sconosciuto del lago e si reca Lèo per una bizzarra seduta di terapia in Rester vertical, il bosco in cui Jérémie continua a tornare diventa per Guiraudie il corrispettivo cinematografico di una foresta baudelairiana fatta di simboli, significati e suggestioni da decifrare. «L’uomo va, e foreste di simboli attraversa» (Baudelaire 2020, p. 43). Un luogo trascendentale riflesso delle emozioni e dei conflitti interiori del protagonista, che lo spinge a confrontarsi con la complessità e l’ambiguità della vita e del mondo contemporaneo. Le videocamere di sorveglianza, ostacolo per i crimini nel contesto urbano, assumono le sembianze degli occhi e dei corpi che si celano o che potrebbero celarsi tra gli alberi, «che lo scrutano con occhi familiari e intenti» (ibidem). Spesso la camera si sofferma su lunghe riprese che ritraggono un bosco vuoto, non occupato da alcuna figura umana, facendo percepire mediante l’assenza la presenza di un (possibile) osservatore che potrebbe rivelarsi in qualsiasi momento. 

Intanto i funghi porcini, simbolo della colpa di Jérémie, che ha solo bisogno di essere raccolta da terra di tanto in tanto (“Imparerai a conviverci”), crescono innumerevoli sulla scena del crimine. Colpa e peccato chiamano in causa il titolo originale, Miséricorde, che dichiara fin da subito la forte connessione con la dimensione cristiana. Non è difatti un caso che a fungere da MacGuffin sia una veglia funebre, con un’omelia pronunciata da padre Philippe che ricorda ai fedeli il valore della misericordia di Dio. Una virtù morale che dovrebbe comportare un atto di genuina compassione per l’infelicità altrui, ma che i personaggi del film sembrano sfruttare come pretesto per rispondere ai propri desideri. Che siano proibiti o profani, corretti o meschini.

Riferimenti bibliografici
C. Baudelaire, Corrispondenze in I fiori del male, trad. it. A. Prete, Feltrinelli, Milano 2020.
R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2008.

L’uomo nel bosco. Regia: Alain Guiraudie; sceneggiatura: Alain Guiraudie; fotografia: Claire Mathon; montaggio: Jean-Christophe Hym; interpreti: Félix Kysyl, Catherine Frot, Jean-Baptiste Durand, Jacques Develay, David Ayala, Serge Richard, Tatiana Spivakova, Sébastien Faglain; produzione: CG Cinéma, ARTE France Cinéma, Scala Films, Andergraun Films, Rosa Filmes; distribuzione: Movies Inspired; origine: Francia, Portogallo, Spagna; durata: 102’; anno: 2024.

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