Nel panorama mediale contemporaneo, la varietà e la reciproca contaminazione dei media stanno spingendo studiosi e cineasti a interrogarsi sulla loro ontologia, cambiando diverse prospettive fino ad ora considerate inequivocabili. L’adozione da parte della produzione televisiva dell’estetica cinematografica e alcune tecniche tipicamente seriali adottate dal cinema mettono in discussione il “film” quale oggetto specifico del cinema. Emblematico, in questo senso, è il caso di Heimat di Edgar Reitz – proiettato come film al Festival di Venezia nel 1984 e successivamente trasmesso in undici episodi dalla televisione tedesca – che si presenta a tutti gli effetti come una serie, con tanto di struttura episodica che ne consente una visione pianificata in più momenti, semanticamente non riconosciuta per un “vecchio” pregiudizio storico che lega in maniera indissolubile cinema-film e televisione-serie.
Una posizione che parrebbe dimenticarsi che la nascita della serialità audiovisiva risiede proprio all’interno di quella sala cinematografica percepita come estranea, rilegata poi sul piccolo schermo con la diffusione della televisione. Ecco allora che quel Che cos’è il cinema? di André Bazin assume oggi un peso senza precedenti, a cui si appaia come naturale prosecuzione un’altra domanda, più specifica: che cos’è un film? Se una serie, per via della sua frammentarietà, appare potenzialmente come qualcosa di più individuabile, l’oggetto “film” nell’era del web, del digitale, delle piattaforme streaming e della serialità come prodotto dominante, viene messo in luce come qualcosa di inaspettatamente sfuggente e indefinito. È possibile che oggi la struttura seriale si stia dimostrando una plausibile declinazione interna del film? È possibile che, nel panorama odierno, il cinema non sia altro che il frutto della continuità che intercorre tra sala e televisione? Intesa non nella sua vecchia funzione di palinsesto, bensì di schermo cinematografico personale?
Questi gli interrogativi da cui sembra nascere l’ultimo lavoro di Nicolas Winding Refn, presentato alla 79a edizione del Festival di Venezia senza cedere al compromesso semantico, ma forte della sua rivendicazione tassonomica in quanto “serie”, senza che ciò la distanzi dall’essere qualcosa di diverso rispetto all’essere “film”, mettendo così sotto i riflettori una differenza ormai lontana. Un cambio di paradigma che non concepisce più le serie come oggetto separabile e frammentario, ma come opere dotate di una propria unità complessiva e indivisibile. Se il precedente Too Old to Die Young (2019) si configura come una vera e propria antologia di rotture, o meglio di rifiuti, dei topoi seriali televisivi – con episodi dalle durate anarchiche, assenza di qualsiasi tipo di cliffhanger, linee narrative che girano a vuoto o rimangono irrisolte – lavorando in un complessivo atteggiamento di opposizione, Copenhagen Cowboy (2022) tenta invece di fare un “passo avanti” cercando un dialogo sia con lo spettatore che con la struttura.
Non un compromesso, quanto piuttosto un superamento, un gioco tra distanziamento e continuità col passato, un’evoluzione di un mezzo che sembra aver raggiunto la consapevolezza della propria natura mediale ibrida. Il mondo creato da Refn, infatti, in quanto ambiente multimediale, appare come un ecosistema diversificato in cui tutto l’audiovisivo (e non solo) diventa potenzialmente fonte da cui attingere senza gerarchia: dal cinema ai manga, dai videoclip musicali alla letteratura, dalla videoarte ai servizi fotografici. Le diverse ambientazioni assumono la forma di micro-realtà, dando vita ad un universo condiviso (un multiverso, verrebbe da dire) in cui luoghi e personaggi che li abitano attingono da una variegata rosa di immaginari iconografici differenti fra loro.
A rendere possibile questa coabitazione, risulta determinante la figura della protagonista – vaga presenza che guarda all’ospite pasoliniano di Teorema (1968), con il suo irrompere nella vita quotidiana per osservare e stravolgere – che si presenta come vera incognita dell’opera: strega, gui, orfana, marzialista, aliena, portafortuna, Miu è tutto questo sulla base dell’immaginario a cui di volta in volta si rapporta (“Io non so che cosa sei o di che cosa sei capace, ma le persone accanto a te muoiono o ricevono una nuova vita”), sfuggendo a qualsiasi tipo di definizione e rilanciando il mistero su un’indeterminatezza che le permette di elevarsi a “semplice” presenza, compendio di iconografie. Tale natura variabile ed elusiva fa di lei una figura puramente multimediale, un personaggio che assolve alla funzione di collante, minimo comun denominatore, permettendo di rendere comunicanti mondi e universi narrativi eterogenei attraverso la capacità di rendersi veicolo, muovendosi tra di essi senza soluzione di continuità.
È così che, tramite Miu, possono convivere fiabe come Biancaneve e i sette nani con manga seinen come Berserk; il cinema (neo)noir e gangster con quello di arti marziali e wuxia; l’immaginario urbano con quello di miti e leggende scandinave; questioni sociali come la degenerazione del patriarcato, con altri più astratti come la lotta tra bene e male (“L’elemento che tutti ci invidiano, di cui tutti sono affamati e di cui tutti sognano, il vero simbolo assoluto del potere che nostro signore ha creato: il pene”). Queste biodiversità non soltanto sembrano poter coesistere sullo stesso piano fenomenico in modo ravvicinato, ma i loro confini appaiono così sfumati da contaminarsi a vicenda, attraverso uno sfruttamento dell’iconografia plasmata a proprio favore: il personaggio di Rakel dorme un sonno profondo come le principesse delle fiabe, riposa in una bara come i vampiri, attende un rituale di sangue per risvegliarsi come gli spiriti e, infine, appare come una figura di confine tra un essere ferino e un combattente di arti marziali.
Un gioco che supera i confini dell’opera, in una logica metacinematografica che ingloba nel proprio universo altri mondi anche della stessa filmografia del regista, come la trilogia di Pusher con il personaggio interpretato da Zlatko Buríc, andando così a delineare nel complesso un pastiche di cui Refn – forte della lezione postmoderna, portata alle sue estreme conseguenze per accedere ad un “oltre”, al contemporaneo, al futuro – si impone come vero e proprio demiurgo di un’esperienza audiovisiva di cui lo spettatore è investito senza possibilità di appiglio a codici saldi.
Proseguendo sulla propria ricerca estetica basata su un piacere di visione estatico, in cui la bellezza viene percepita come valore assoluto, oltre alle varie influenze videoartistiche che ritornano da The Neon Demon (2016), il focus formale sembra concentrarsi in primo luogo su un lavoro tutto interno alla Storia del mezzo. Nicolas propone un cinema che nel suo proiettarsi in avanti guarda indietro, attingendo alle tecniche e ai sistemi del passato, aggiornandoli, come in un eterno ritorno: non soltanto le serie iniziano a tornare all’interno della loro sede originale – la sala cinematografica – ma le tecniche passate diventano soggetto di assorbimento per la nascita di un cinema Nuovo, che riscopre la capacità di “raccontare” mediante suoni e immagini, scrollandosi di dosso la centralizzazione della parola.
Se da una parte il ricorso al montaggio parallelo è una soluzione già sperimentata a partire da Fear X (2003), qui moltiplicata in favore di una continua oscillazione diegetica-extradiegetica; dall’altra Refn pare recuperare e far propria la teoria dell’asincronismo postulata da Ėjzenštejn, Pudovkin e Aleksandrov, creando dei cortocircuiti nella combinazione suono-immagine al fine di restituire un significato ulteriore tramite il contrappunto sonoro: il grugnito sostituito alla voce di Sven (dal danese Svin, “maiale”) che potenzia l’accostamento uomo-maiale presente in tutte le cinque ore, oppure i suoni da videogioco arcade che sostituiscono lo scontro Miu-Chiang come fosse una simulazione da picchiaduro, a rimarcare la labilità di ciò che viene mostrato.
Quello che emerge, dunque, sembrerebbe la necessità di superare le vecchie concezioni teoriche, rielaborandole in funzione del panorama contemporaneo e ricercando un aggiornamento più libero dai dogmi consolidati. Di tutta risposta, attraverso un’opera che scivola da qualsiasi tipo di incasellamento, Refn ci ricorda che seriale o filmico, condiviso o individuale, il cinema certamente muterà ancora, evolverà in qualcosa di nuovo, si trasformerà come ha sempre fatto, ma di sicuro non morirà mai.
Copenhagen Cowboy. Regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding, Refn Sara Isabella Jönsson, Johanne Algren; musiche: Cliff Martinez, Peter Peter, Peter Kyed, Julian Winding; interpreti: Angela Bundalovic, Lola Corfixen, Zlatko Buric, Andreas Lykke Jørgensen, Jason Hendil-Forssell, Li Ii Zhang, Dragana Milutinovic; produzione: NWR (Lene Børglum, Christina Bostofte Erritzøe); distribuzione: Netflix; origine: Danimarca; durata: 312’; anno: 2022.