Cinquantaquattro anni fa, il film di Pier Paolo Pasolini Teorema veniva presentato in circostanze straordinarie alla ventinovesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In quel Sessantotto di ribellione al potere pastorale dello Stato, della Chiesa, delle Istituzioni, gli autori in concorso si opponevano all’organizzazione centralistica della Mostra – ancora regolamentata dal codice fascista –, decisi ad impedirne lo svolgimento. Pier Paolo Pasolini prende parte al fermento della contestazione. Nonostante l’accordo con le esigenze di rinnovamento della Mostra sostenute dall’Associazione degli Autori Cinematografici, egli decide, inizialmente, di parteciparvi regolarmente. «Gettare il proprio corpo nella lotta» – scrive sulla rivista “Il Giorno” (Perché vado a Venezia, Pasolini 1999, pp. 163-169) – significa agire tra le maglie del potere, al di là di qualunque consolatoria e intimidatoria pretesa di estraneità ad esse. Di fronte all’impossibilità di operare fuori dalle strutture culturali, politiche, economiche esistenti, il poeta afferma l’urgenza di imparare a sfuggirgli attraverso, sfruttandone cinicamente i mezzi in un ostinato braccio di ferro.
Solo una settimana più tardi, Pasolini decide – apparentemente contraddicendosi – di unirsi al movimento, grazie alle rinnovate posizioni dell’ANAC (Ho cambiato idea per farla cambiare, ivi, pp. 170-174): durante l’“occupazione di lavoro” i film saranno proiettati e l’autogestione lavorerà alla stesura di un nuovo statuto, dentro e contro i dettami dell’industria culturale (emblema del nuovo potere) e in rotta con la vecchia istanza meritoria incarnata dal Leone d’oro. Sedate le agitazioni, la Mostra si svolge, tuttavia, secondo il consueto ordinamento. Teorema viene così proiettato nonostante le resistenze del regista – denunciato per l’occupazione della Sala Volpi – e successivamente ritirato dagli schermi (ancora una volta) con l’accusa di oscenità.
Oggi che cento anni ci separano dalla nascita di Pasolini e che il Sessantotto può mostrare il suo volto bifronte – da un lato, il suo “fallimento storico” necessario alla riconversione del capitalismo in neo-capitalismo dei consumi, dall’altro la sua spettralità rivoltosa aleggiante su ogni stabilità governamentale –, Teorema torna a Venezia, inaugurando la sezione Venezia Classici della settantanovesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, per porgerci nuove domande. Il film si impone – tra le luci sfavillanti del Lido – come un silenzio gravido e aridissimo che costringe a porre un freno alla parola, a sostare nella sua vacanza, sul crinale imparlabile di una fisicità brutale, inattingibile.
Opera ibrida e anfibia, Teorema nasce come un affresco che – dipinto «con la mano sinistra» – si sviluppa parallelamente all’omonimo romanzo, steso come un dipinto «su fondo oro» dall’autore (Pasolini 2016, p. V). Parola e immagine, tuttavia, non si corrispondono; quest’ultima spinge, infatti, la prima verso l’istante di sospensione tra la morte e il significato che precede e segue rappresentazioni e definizioni. Il teorema che il film si propone di dimostrare – more geometrico – a partire dal quesito «se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?» (Pasolini 1999, p. 1483), può, infatti, trovare una risposta per absurdum solo in un linguaggio di “sordo-muti”, nella lingua angelica ed erotica di un giovane dio, del suo sguardo e del suo sesso in cui corporeo e incorporeo si toccano fino a contaminarsi. Nel mondo atono e “post-atomico” della vita borghese – mostratoci in color seppia nelle prime sequenze – l’immagine cinematografica fa erompere una pulsione sacra, un ritmo che precipita i suoi membri verso l’esperienza impossibile di un deserto annientatore, di fronte a cui la lingua vacilla e lo sguardo smarrisce ogni riferimento spaziale.
L’immagine delle dune attraversate e modellate dai venti apre il film. Teorema è, innanzitutto, un film sul deserto: sull’Unicità di un «luogo senza luogo» (Gentili 2010, p. 91) inabitabile, che trascina la storia – sulla soglia degli anni settanta identificabile con la storia borghese – verso il «tutto aperto» (Pasolini 2016, p. 87) in cui origine e fine si incontrano. Esso si imprime come una ferita che contagia, come un fuori che interpella, invade e distrugge, con la sua potenza naturalmente iconoclasta, le granitiche maschere dei «campioni dell’ordine di realtà» borghese (Lago 2020, p. 51), gravitante tolemaicamente intorno al padre.
Nell’immobile fissità bizantina dei volti – del padre Paolo, della moglie Lucia, del figlio Pietro, della figlia Odetta – il mondo fossile e cristallizzato della borghesia (in cui la parola è raggelata o sepolta) appare già gravido di un destino tragico: la perdizione di un ripiegamento irresistibile annunciato da una voce divina, acusmatica e dis-locata che, levandosi sul deserto, affonda il referto/parabola pasoliniano nello spessore del tempo, verso la dispersione veterotestamentaria del popolo eletto, all’origine della civiltà occidentale. L’arrivo atteso e imprevisto del giovane dio, ospite nella villa della famiglia borghese, si configura così come l’irruzione di uno spazio a-topico che, con la violenza del proprio corpo sacro, disfa l’economia linguistica e simbolica dello scambio, nel dono di un amore tautologico, inclassificabile. Lo sguardo disarmato di Emilia, la serva della famiglia, è il primo a fissarsi sul sesso dell’ospite, a spingersi sul limite di una contemplazione insostenibile sotto il giogo della quale l’intera famiglia sarà demolita pezzo per pezzo. In preda a un «dolore che non riconosce più nulla» (Pasolini 2016 p. 28), essi si lasceranno possedere dalla sua muta e ambigua dolcezza.
L’immagine del deserto traccia inesorabilmente il momento irreversibile in cui la seduzione divina – materna e paterna, angelica e luciferina ad un tempo – iscrive nelle vite borghesi lo spazio non designabile di un desiderio che annienta. Il linguaggio tracima in un silenzio monolitico e l’immagine iconica dei volti è logorata da quella di un’aridità omogenea e inospitale, infinitamente arcaica, in cui le immagini sprofondano ma da cui, insieme, si dipanano. Dallo sguardo di Pietro sull’ospite – dalla sua scoperta carnale della diversità – sembra sorgere la pittura di Francis Bacon, in cui la «miseria della carne» (materia dell’immagine) si contorce «sotto la spinta di forze interne» (Bazzocchi 2010, p. 121) che disgregano ogni individuazione. Lo sguardo di Lucia, che trasforma le vesti abbandonate del giovane in reliquie del suo passaggio, si acceca in una luce antica nel momento dell’unione. Lo sguardo macchinico della fotografia mostra a Odetta, dedita al culto familiare del Padre, la presenza miracolosa di un corpo che guarisce, «con la crudeltà di ogni atto conseguente» (Pasolini 2016, p. 98), dall’oscura “mostruosità” appena accennata nella bizzarra forma della bocca.
L’Adorabile – ciò per cui le qualificazioni mancano – non è incarnazione di un’alterità assoluta, ma l’estimità che abita l’identità e la sottrae a sé stessa; il corpo, borghese e desertico, dell’ospite destituisce il pensiero «di ogni interiorità per scavarvi un fuori, un rovescio irriducibile, che ne divora la sostanza» (Deleuze 1989, p. 196). L’immagine di Paolo che, provato da un dolore innominabile, poggia le proprie gambe sulle spalle forti del giovane (novello, intrattabile Geràsim) è la proiezione parodica del rovesciamento – dal ruolo di possessore a quello di posseduto – che, sullo sfondo del paesaggio livido del Po, condurrà il padre, divenuto mortale, a “cadere da cavallo”, dichiarando la propria resa.
L’annuncio dell’imminente partenza dell’ospite precipiterà i membri del mondo borghese, ancora una volta, ai limiti del linguaggio: non nell’afasia – tipica malattia di classe–, né nel silenzio sacro del linguaggio erotico, ma in una parola così come essa appare in certe forme di schizofrenia, nel soliloquio amoroso, nel monologo tragico. Essi confessano all’ospite la distruzione che egli ha operato, la coscienza, acquisita quasi per magia, della propria degradazione. Nulla potrebbe più reintegrare in un’identità soggettiva le macerie lasciate dal passaggio di un dio «venuto per distruggere» (Pasolini 2002, p. 1087). Il vuoto scavato dalla sua assenza non permette alcuna compensazione immaginaria alla perdita ma, secondo la profezia iniziale, disperde il popolo trasformandone i “casi” in «sezioni di una figura iper-spaziale», «proiezioni di un fuori che li fa passare gli uni negli altri, come proiezioni coniche o metamorfosi» (Deleuze 1989, p. 195).
Come fa notare Gilles Deleuze, la struttura teorematica del film non si caratterizza, dunque, come una deduzione astratta, estrinseca all’immagine – «data una famiglia borghese tradizionale, se un elemento estraneo vi entra portando con sé la forza scandalosa del sacro, essa si distrugge e ogni membro, in modo diverso, perde se stesso» (Bazzocchi 2010, p. 107) –, ma rinvia costantemente ad un problema che «risiede nel teorema e gli dà vita, pur destituendone la potenza» (Deleuze 1989, p. 195), e che nell’immagine – o meglio nelle immagini – del deserto trova forma. I recessi della città in cui Lucia si avventura nella sua disperata ricerca erotomane di un sostituto per il sacro perduto, divengono deserto in cui ogni punto di ancoraggio è irrimediabilmente sospeso; la via per Milano – centro della storia, del potere, dell’identità – è preclusa da uno smarrimento senza scampo.
Lo spazio ormai desolato e asignificante della propria fabbrica conduce Paolo ad una stazione ferroviaria, non-luogo in cui gli abiti borghesi potranno essere, infine, dismessi, in una spoliazione quasi francescana. Un’improvvisa, ingiustificabile, metamorfosi dello spazio, mostra i suoi piedi che, malcerti, percorrono il deserto su cui la voce del dio si era levata. Lì dove non esiste più alcun orizzonte – ogni orizzonte non rimandando, nel deserto, che all’assoluta ripetizione di se stesso – la vita è posta definitivamente fuori di sé, ai limiti dell’Umano; abbandonata «fuori dall’ordine e dal domani» (Pasolini 2016, p. 104), essa è esposta allo sguardo di ciò che non consola ma che, oltre ogni coscienza, chiama la propria irruzione.
Nell’epoca in cui la borghesia, conquistata l’intera umanità, diviene finalmente tragica in quanto costretta, al termine della vecchia lotta di classe, a distruggere se stessa attraverso i propri figli borghesi (ciò sarebbe avvenuto, secondo Pasolini, nel Sessantotto), l’immagine cinematografica “fa deserto” per una “nuova, positiva” distruzione, per uno «spazio liberato dal potere e dalla sua geometria» (Gentili 2010, p. 90). È forse Emilia, ultima figlia di una civiltà contadina ormai urbanizzata e quasi scomparsa, a suggerirne, con la propria morte, l’evento. La sua scandalosa santità – in grado di co-rispondere “senza parole” alla teofania – andrà a morire in un deserto contemporaneo, tra le macerie di una città in costruzione, embrione e rovina ad un tempo. Sotterrata nella fossa di un terrapieno solcato dalle scavatrici, dalle sue lacrime sgorgherà un’inestinguibile fonte d’acqua.
Nell’immagine, dunque, i deserti che abitano e resistono nello spazio urbano fanno segno ad una sorgività inesauribile che, demolendo e moltiplicando senza sosta le rovine, fa sì che la storia non finisca ma, continuando a finire, possa essere re-clamata da un incontro inatteso e terribile, da nuove deviazioni. Persino l’ossessa ricerca pittorica di Pietro e l’assurda catatonia in cui Odetta precipita – immagine dell’impossibilità borghese di cogliere l’appello del sacro – sono così ricapitolate nell’immagine ottico-sonora finale. L’urlo bestiale e dis-umano con cui «l’intero corpo» del padre – condotto al limite estremo della vita e del linguaggio – «fugge dalla bocca che grida» (Deleuze, 1995, p. 69), è il punto d’intensità in cui la realtà si strappa, ed interno ed esterno, origine e fine, rovesciandosi l’uno nell’altro, aprono l’abisso di una domanda destinata a interrogarci oltre ogni possibile fine: «Se, vivendo nei giorni della storia […] non bisogni aver saputo rispondere a tutte le sue infinite e inutili domande per poter rispondere, ora, a questa del deserto, unica e assoluta» (Pasolini 2016, pp. 191-192).
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2001.
M. A. Bazzocchi, I burattini filosofi, Mondadori, Milano 2016.
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.
Id., Immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.
D. Gentili, Destruzione. Demolizione, vetro, deserto, spazzatura: Walter Benjamin e l’architettura, in AA.VV., Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010.
P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine 2020.
P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, I Meridiani, Mondadori, Milano 1999.
Id., Teorema, in Per il cinema I, I Meridiani, Mondadori, Milano 2002.
Id., Teorema, Garzanti, Milano 2016.
G. Solla, Deserto. Lessico per un tempo a venire, 2021.
Teorema. Regia: Pier Paolo Pasolini; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; interpreti: Terence Stamp, Massimo Girotti, Silvana Mangano, Laura Betti, Anne Wiazemsky, Andrès José Cruz Soublette, Ninetto Davoli; origine: Italia; durata: 98′; anno: 1968.