Cos’è un classico? Un’opera che dura, si dice, che si presta ad una lettura rinnovata con il passare degli anni, dei secoli. Ed è vero. Chiamiamo classico qualcosa che non tramonta mai, che pur essendo legato ad un contesto storico-sociale ben preciso è capace di svincolarsene (caso esemplare Shakespeare). Da cosa deriva questa perennità? Da temi e contenuti universali? Sì e no. Non è raro il caso di autori, anche coevi, che pur trattando i grandi temi della esistenza umana hanno avuto fortune diverse (quella di Marlowe non è equiparabile a quella di Shakespeare). Non è perché parlo dell’alfa ed omega delle cose che mi garantisco perenne fama. La risposta è forse altrove. Prima di provare ad accennarla, partiamo da un esempio concreto e prossimo.
Eduardo De Filippo costituisce senz’altro una parte molto rilevante della nostra tradizione culturale e di spettacolo. Forse la vera e propria ossatura. E si rende dunque disponibile a continue attualizzazioni. Ne sono testimonianza le recenti rappresentazioni teatrali e cinematografiche, a partire dall’ultimo Natale in casa Cupiello di Edoardo De Angelis (testo del quale ricordiamo a teatro anche le versioni sperimentali di Russo Alesi e Latella), passando per Le voci di dentro di Servillo e Il Sindaco del Rione Sanità di Martone. Entrambi, Servillo e Martone, hanno tra l’altro da poco ultimato il film su Scarpetta, padre naturale di Eduardo, ricostruendo la Napoli del primo Novecento e di tutta una tradizione teatrale. E se aggiungiamo il recente documentario Il nostro Eduardo di Gnocchi e Mally, nonché il fatto che il film di De Angelis è il primo di una annunciata trilogia eduardiana, e un altro film sui fratelli De Filippo è in preparazione per la regia di Rubini, possiamo senz’altro dire che questa rinnovata attualità di Eduardo ne riconferma – a centoventi anni dalla nascita – la sua perennità, la sua classicità.
Come ha fatto un drammaturgo-regista-attore legato ad un perimetro geografico definito, Napoli, segnato anche dal marcato uso del dialetto a diventare un classico? Eduardo in una intervista del 1956 dice: “Probabilmente tra cinquant’anni riprenderanno Questi fantasmi! E non rideranno più, perché potranno vedere in quest’uomo, che crede ai fantasmi per non credere alla realtà, la vita degli uomini”. La “vita degli uomini” o la “vita dell’uomo in genere” è quella divisa tra capacità di illudersi, di non guardare in faccia la realtà quando si fa dolorosa, di abitare lo spazio infantile e testardamente protetto della propria vita (il “Presepio” di Luca Cupiello o la scatola de La grande magia), e lo scetticismo cinico che domina al di fuori della teca protettiva, dove l’altro viene irriso, derubato, sospettato o strumentalmente usato.
Mi è capitato di definire la commedia eduardiana come una «commedia scettica» (De Gaetano 2014), perché se è vero – come pensa Northrop Frye – che la commedia è sempre passaggio dall’«illusione alla realtà», quest’ultima affermata come il momento di «integrazione» in cui una comunità rinnovata si costituisce, in Eduardo questo passaggio non c’è mai. La piccola comunità di riferimento eduardiana – la famiglia – è sempre totalmente disgregata. Sede di conflitti, rivalità, sospetti, manipolazioni. Legami quasi sempre indissolubili, con separazioni impossibili (con qualche eccezione come Mia famiglia), che portano un soggetto incapace di modificare la situazione a lasciarsi morire, dopo essersi ritirato dal mondo, sottratto al dialogo, aver perso la parola, trasformata in farfugliamento o mutismo (fino all’ultimo Gli esami non finiscono mai del 1973).
Il massimo che i finali eduardiani sembrano concedersi sono domande su un presente disperato (il “Ch’è ssuccieso…?” dell’Amalia di Napoli milionaria) che potrebbero preludere ad una presa di coscienza che non arriva mai, o approdi solo apparentemente riconciliativi dopo che marito e moglie hanno tirato “fuori il rospo” (Sabato, domenica e lunedì). Se la famiglia è il cuore della drammaturgia eduardiana non lo è come istituzione sociale da criticare. Lo è per una ragione ben precisa: la famiglia (dal rapporto tra coniugi a quello con i figli, i nonni sono di fatto assenti dal mondo eduardiano) è la sede prima in cui la “vita degli uomini” viene sentimentalmente condivisa. E questa condivisione non è mai animata da fiducia.
Le pratiche, le abitudini, i giochi di ruolo, le sfere di competenza intorno a cui una famiglia si organizza trasformano e consolidano quel sentimento scettico in un teatro di assolo disperati, in una incapacità totale e strutturale di comunicare. L’elusione scettica di tipo melodrammatico che porta il soggetto a chiudersi in se stesso, da Eduardo viene iscritta in un commedico familiare dove la fine evita la tragedia e prende la forma di una lenta dissolvenza, di una scomparsa progressiva e silenziosa. Questo sentimento scettico è effetto del funzionamento distorto dell’istituzione familiare in un dato momento storico? No, la famiglia eduardiana, popolare o borghese, dagli anni venti ai settanta, non cambia. Non ha fuori, e questo è il problema. I vicoli definiscono (a differenza di Viviani) solo il perimetro che circonda le case, che sono la vera scena del teatro familiare eduardiano.
Nella famiglia è come se le relazioni e gli affetti vincolanti, circoscritti e duraturi, portassero con sé il lento dissolversi della disponibilità degli inizi (accennata e mai vista), abitata da sogni piccoli o grandi, che inesorabilmente tramontano e resta solo lo spazio per risentimento e rancore: “Sei vecchia, ti sei fatta vecchia!” dice Luca Cupiello alla moglie, rimproverandole la sua cattiva volontà nell’agire quotidiano. C’è sempre il tema del tempo che passa e cambia tutto (in peggio) in Eduardo, e che dà struttura romanzesca alla sua drammaturgia (esemplificata dalla storia di una vita, quella di Guglielmo Speranza in Gli esami non finiscono mai). Questo risentimento familiare è abitato al suo interno da una forza inespressa, anche amorosa, a cui non si riesce a dar forma se non nel momento in cui tutto sembra finire (il finale di Natale in casa Cupiello).
La grandezza di Eduardo sta nel farci vedere la sfiducia e l’elusione, il sospetto e la cattiveria, come effetti di una radicale incapacità di corrispondere ai propri sentimenti: effetti di sogni infranti, di riconoscimenti elusi, di misere mitologie (dal miraggio di ascesa sociale in un film come Ragazze da marito del 1952 a quello del cinema in Mia famiglia del 1955). Se nelle famiglie eduardiane i sentimenti diventano ri-sentimenti è perché non si dichiarano e dunque non giungono a riconoscimento. Questo porterebbe il personaggio in mare aperto, in una zona non protetta e rischiosa. Richiederebbe una fiducia in sé che manca, e dunque il soggetto preferisce difendersi, pretendere, rivendicare, ingaggiare un corpo a corpo estenuante con l’altro. O guardare altrove, ritirarsi in sé, non parlare, scomparire.
Sono personaggi presi sempre in un vincolo tormentoso, tra di loro, con se stessi, le loro illusioni, le loro colpe. Ma questo sentimento elusivo e melodrammatico si iscrive in Eduardo in una forma commedica che ne stempera il potenziale tragico, convertendolo in un lento e progressivo morire simbolico e reale. La grandezza di Eduardo non sta però solo nel tematizzare tutto questo. Sarebbe un Pirandello qualsiasi. Lui va ben oltre. E può andarci perché usa la sua pratica di uomo di teatro non solo sulla scena ma nella costruzione della sua drammaturgia. Eduardo è capace di farci vedere la soglia. Ci mostra la conversione dell’intensità espressiva di un volto nell’irrigidirsi di una maschera, dello smarrimento meravigliato dell’infanzia nella fissazione comica dell’humor, del protrarsi dell’illusione nel suo tracollo scettico, del drammatico nel commedico e nel farsesco, della indeterminatezza del sonno nella coscienza della veglia (i tanti risvegli eduardiani), dell’atto di parola nel suo svanire in farfugliamento e silenzio, in definitiva dell’umano nella sua fantasmatizzazione. Eduardo è capace cioè di farci vedere come nessun altro, attraverso i gesti minimi del nostro quotidiano e delle relazioni che lo attraversano, come questa conversione dell’umano in ciò che lo sospende e lo nega è essa stessa umana.
Allora, ci è forse possibile rispondere alla domanda dell’inizio. Un classico è tale non per i contenuti né genericamente per le forme, ma per il modo in cui sa mostrare come una forma è potenza di contenuti. O, detto altrimenti, come attraverso quei contenuti determinati (“quest’uomo che crede ai fantasmi”) sa mostrare la forma in generale (“la vita degli uomini smarrititi nelle loro illusioni”). Esattamente come la natura umana, che è capace di divenire e questa e quella esperienza, ma di non coincidere definitivamente né con questa né con quella. Le situazioni drammatiche della vita sono quelle in cui l’uomo è troppo strettamente vincolato ai suoi contenuti tanto da non riuscire a prenderne le distanze (malattia, assoggettamento). Così come le situazioni più felici sono quelle in cui attraverso la determinatezza delle nostre esperienze sentiamo la potenza della vita (amore, arte).
Nelle famiglie di Eduardo noi non vediamo tanto l’evoluzione di una istituzione cardine come la famiglia attraverso un cinquantennio di vita nel Sud Italia, vediamo qualcosa che riguarda la natura umana in generale che nella famiglia trova il suo set privilegiato di manifestazione, e cioè il teatro dei sentimenti tra elusione e riconoscimento, negazione ed affermazione, tragedia e commedia. Vediamo il teatro della vita, cioè la vita che nel suo attuarsi è indistinguibile dal teatro. E dalle maschere (plurali) che indicano letteralmente la non coincidenza del soggetto con se stesso e con le proprie esperienze. Indicano la vita irriducibile ad ogni suo contenuto determinato. Al di là di questo c’è solo il senza distanza, l’asservimento distopico ad una esperienza senza possibilità di scarto, ad un vincolo senza libertà. C’è solo l’impossibilità di maschere in un mondo dominato da mascherine, come il nostro presente ci attesta. Ed è proprio a partire da questo nostro presente inteatralizzabile che sentiamo perfino con più forza l’attualità del teatro di Eduardo, la sua classicità.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, L’Arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi, Pellegrini, Cosenza 2014.
E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, a cura di A. Barsotti, Einaudi, Torino 2014.
Id., Cantata dei giorni pari, a cura di A. Barsotti, Einaudi, Torino 2015.
Eduardo De Filippo, Napoli 1900 – Roma 1984.