Un vicolo innevato, gli zampognari che suonano, una donna infreddolita stretta nel suo scialle di lana raccoglie i panni dallo stenditoio, quasi senza badare al quadretto natalizio che è già un presepe, però intriso di cupezza melanconica. Un lungo piano sequenza accompagna la donna che scende col canestro di panni lungo i gradini di un sottoscala, verso la propria abitazione, la si vede entrare in casa. Uno stanzone con la carta da parati scrostata, immersa nel silenzio del sonno. Sembra l’introibo alla lenta discesa nel proprio inferno familiare: casa Cupiello.
Così De Angelis apre la sua rilettura del testo eduardiano, ed enuncia già il tono che vuole conferirgli: quello tragico-melodrammatico, che fa slittare il tragico in spinte progressive, le quali conducono al sacrificio dell’innocenza. Già, perché se Luca Cupiello non vuole svegliarsi alle nove, nonostante le reiterate esortazioni della moglie Concetta, è perché vorrebbe continuare a sognare, anche nella veglia, un mondo perfetto, armonioso, dove la tradizione non può perdersi, non può sgretolarsi. La sacra famiglia per lui deve rinnovarsi a ogni Natale, non può andare in pezzi. Ma la sua innocenza si rivela una sorta di colpa, intrisa anche di rabbiosa delusione (il continuo chiedere “Te piace ‘o presebbio?” all’indolente e indisponente Nennillo, il figlio che non solo non vuole alzarsi dal letto, ma si rifiuta di crescere, e caparbiamente nega la propria approvazione).
L’innocenza coincide con una incoscienza di fronte alle miserie del mondo. Si perde nella costruzione minuziosa di un presepe precario in cui vorrebbe si rispecchiassero i sentimenti della sua famiglia. Ma quella famiglia sta per andare in frantumi. De Angelis decide di immergere l’atmosfera del testo di Eduardo nell’epoca incerta, sospesa tra la ricostruzione e la speranza di un mondo di benessere: gli anni cinquanta. Questi anni sono per il cinema italiano anche quelli dei melodrammi di Raffaello Matarazzo, con tutte le sue accensioni sentimentalistiche, isteriche, eccessive, di “tormenti”, “catene”, passioni e tradimenti. Ed è proprio un tradimento, un adulterio ciò che manda in frantumi il disperato tentativo di Luca Cupiello di mantenersi in un sogno di minuscolo decoro, pur con i pedalini rattoppati, appartenente a quel ceto popolare che vede come un miraggio anche solo il raggiungimento di uno status da piccolissima borghesia. Ma in realtà nell’elaborato intarsio che diede vita negli anni ‘30 al Natale eduardiano si indovina un sottotesto, spesso presente in filigrana nel suo teatro, che è quello riferito alla famiglia teatrale del grande attore-drammaturgo. Luca e Concetta sono infatti i nomi dei nonni materni.
La famiglia è in “Natale” frutto dell’analisi del teatro nella società ed è mostrato sinteticamente: solo in futuro questa sintesi si trasformerà in metafora. Per ora è un tracciato di relazioni attraverso cui le strutture della vita prendono forma autonoma e, associate alla famiglia del teatro, diventano sistema espressivo (De Matteis 1991, p. 230).
A testimonianza di come il testo risulti una sorta di “puzzle”, che è anche la decostruzione dei tre generi (grottesco, melodrammatico e tragico), c’è il fatto che la commedia nasce prima come atto unico nel 1931 (periodo dell’exploit della compagnia del Teatro Umoristico composta dai tre fratelli Eduardo, Peppino e Titina, ricordato nella drammaturgia-zibaldone di Ogni anno punto e da capo, messa in scena nel ‘71-‘72 dallo stesso Eduardo al Piccolo di Milano), che è il tragicomico, disastroso pranzo di Natale funestato dall’arrivo inatteso dell’amante di Ninuccia alla presenza del gelosissimo marito Vittorio, e che innesta il beffardo finale dei doni dei magi (borsetta, ombrello e letterina) a una Concetta affranta e disperata.
Una “tragica farsa” dunque che stravolge in senso amaro il tono da “commedia degli equivoci”. Questo atto unico diventerà poi il secondo atto nella messinscena successiva del 1934. Eduardo scrisse allora un primo atto in cui l’umorismo si piega a un desolante gioco al massacro tra parenti, dove l’interno familiare si tinge di un realismo quasi allucinato, che tracima in crudeltà. Nel frattempo, intorno al 1936, Eduardo sentì il bisogno di risolvere il protagonista Luca Cupiello in vera e propria vittima sacrificale, vittima delle sue stesse illusioni, del suo stesso sogno infranto, che non ebbe però in un primo momento il coraggio di rappresentare a Napoli. Tuttavia in seguito andò in scena ed ebbe la sua definitiva trascrizione drammaturgica in tre atti sulle pagine de “Il Dramma” nel 1943, data significativa per una Napoli e una Italia rabbuiata e martoriata dalla guerra. Eduardo rivelò che quella famiglia lui l’aveva conosciuta:
Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi: povere creature ai cui occhi il sole di Napoli fa risplendere persino le crude miserie della loro triste vita quotidiana: e allora, per un bisogno istintivo di liberazione, si urtano, si feriscono a sangue, giungono fino all’odio, perché il nostro sole ingigantisce anche la loro puerilità. Ma si adorano… essi stessi non sanno quanto si adorano (De Filippo 1936, pp. 26-27).
Evidentemente da tale complesso, commisto di società, teatro e forma di vita (non solo scenica, ma anche familiare e sociale), nasce un tessuto drammaturgico che si deposita in tradizione, facendo quasi coincidere l’evento natalizio collettivo con questo squarcio familiare che scava, in modo altrettanto simbolico, nell’inconscio di una condizione italiana, non solo napoletana (al punto che la abituale messa in onda a Natale, nelle sue varie versioni realizzate per la Rai da Eduardo nel corso degli anni, ne fagocita il valore “catartico” attraverso i media). Il punto di partenza del film televisivo di De Angelis sta appunto in questo confronto, da un lato, con la tradizione e dall’altro con un necessario tradimento. Del resto la radice latina di “tradere” è proprio quella di trasmettere, trasporre, e al contempo di “tradire”, anche nel senso di trasformare.
De Angelis prosciuga nel primo atto la dinamica grottesca del testo, ne espunge ogni appiglio al gioco comico e ne lascia solo l’amarezza e l’isterismo, la reazione a catena delle ripicche e dei rancori tra i personaggi (i piatti rotti, le furie, le canagliesche reazioni dei personaggi). Con il risultato di survoltare sul piano gestuale tutti i momenti di tensione e di frustrazione all’interno della famiglia. La claustrofobia, insita nel testo eduardiano, da un lato si accentua e dall’altro si riflette nell’ambiente, non a caso disseminato di specchi che sembrano restituire l’egotismo dei personaggi. Sottolinea ciò che era implicito in Eduardo, e cioè la cronica incomunicabilità, le rivendicazioni, i sotterfugi, le incomprensioni: insomma il disagio di una convivenza forzata, di una costrizione. Ma se tutto ciò in Eduardo era stemperato ed esorcizzato, dissimulato, nella chiave del progressivo slittare del comico verso il suo lato desolatamente tragico, nel film di De Angelis viene scarnificato mettendo a nudo progressivamente l’intrinseca solitudine, la condizione umana soprattutto di Luca Cupiello, la sua caparbietà nel voler credere a una possibilità di riconciliazione con la vita, nel momento in cui si costruisce la sua illusione di presepe.
Singolare in questo senso appare la paradossale estraneità dell’interpretazione di Sergio Castellitto, che sembra cercare il personaggio in un avvicinamento progressivo, come se ne indagasse in tempo reale i risvolti, momento per momento, non trovandone altra misura che l’esasperazione, l’esagerazione reattiva. L’interpretazione di una attrice strepitosa e di estrazione eduardiana come Marina Confalone fa di Concetta un personaggio che si colora di malinconica surrealtà. Il suo ballo solitario ed ebbro che apre il secondo atto ne è un esempio, rimandando a una attrice singolarissima ed esilarantemente irreale come Tina Pica, di cui sicuramente la Confalone è erede, e che fu una delle prime interpreti di Concetta.
La strafottenza maligna di Nennillo viene “incarognita” nel controcanto dispettoso che il giovane Adriano Pantaleo riesce a far rimbalzare con abilità nei momenti di incandescenza del gioco scenico, facendosi torva nelle piccole vendette persecutorie verso lo zio Pasqualino, che vive sulle spalle della famiglia e la cui permalosità ipocrita viene messa in luce con puntigliosità incisiva da Tony Laudadio. La Ninuccia di Pina Turco è forse, nel suo orgoglio femminile e nella sua sofferenza di malmaritata, il personaggio che più rimanda alle interpretazioni precedenti, dall’originaria Titina fino a Lina Sastri. Ma c’è una strana attitudine da parte di De Angelis a imprimere in questa compagine di attori una specie di atmosfera da psicodramma, che ritraduce, anche in termini di libertà della macchina da presa, quella corrente magnetica che in Eduardo sprigionava una specie di “illusione” improvvisativa, come se tutto accadesse in modo flagrante sotto i nostri occhi. Eppure, questo stesso tentativo di “lasciare andare” il gioco attorico a briglia sciolta procura una sorta di scollamento.
Quello che interessa De Angelis probabilmente è introdurre invece una messa in parentesi di un testo ormai classico riconducendo con inserti esterni (le scale dei quartieri innevate dove Luca si inerpica per andare alla bottega dei pastori a comprare i Re Magi, l’intermezzo del “Vissi d’arte” pucciniano che introduce all’agonia di Luca Cupiello del terzo atto) il Natale eduardiano alla sua natura melodrammatica, con una operazione abbastanza spericolata, che mentre scioglie il sentimento allo stesso tempo lo raggela rendendolo prelievo di un genere, anche filmico, come il melodramma.
Ecco perché tutto sfocia nel momento più efficace del film televisivo, quel terzo atto in cui il crollo psicofisico di Luca e il suo sacrificio si riscattano e risaltano come un presepe finalmente vivente. È lui adesso, sul suo letto di morte come in una culla, a benedire paradossalmente l’amore, l’unione trasognata, e verissima nella sua trasfigurazione, tra Ninuccia e l’uomo che lei veramente ama. Il tradimento si congiunge con la tradizione. E allora agli occhi appannati di Luca, come agli occhi degli spettatori, appare il presepe: l’immagine sul letto di tutta la famiglia Cupiello stretta nell’abbraccio.
Riferimenti bibliografici
E. De Filippo, Primo…secondo (aspetto il segnale), in “Il Dramma”, XII, 15 agosto 1936.
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, L’Arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi, Pellegrini, Cosenza 2014.
S. De Matteis, Lo specchio della vita. Napoli: antropologia della città del teatro, Il Mulino, Bologna 1991.
Natale in casa Cupiello. Regia: Edoardo De Angelis; sceneggiatura: Massimo Gaudioso, Edoardo De Angelis; fotografia: Ferran Paredes Rubio; montaggio: Lorenzo Peluso; musiche: Enzo Avitabile; interpreti: Sergio Castellitto, Marina Confalone, Adriano Pantaleo, Toni Laudadio, Pina Turco; produzione: Picomedia, Rai Fiction; distribuzione: Rai Play; origine: Italia; anno: 2020; durata: 110’.